E’ difficile ora ripensare al carisma, al fascino e all’ascendente che ebbe Amilcare Cipriani sul finire dell’Ottocento sulle masse non solo romagnole ma anche nazionali: simbolo dei socialisti rivoluzionari, sindacalisti, repubblicani e anarchici per la sua lotta contro la monarchia e le classi dominanti in Italia.
Il legame tra Cipriani e Rimini fu davvero ambivalente: luogo dell’infanzia e degli affetti familiari ma anche di prigionia e persecuzioni. Città da cui fuggire, per ritornarci ed essere imprigionato, in cui rientrare trionfante per poi andarsene nuovamente.
Cipriani nacque in realtà ad Anzio nel 1844, dove il padre riminese si era trasferito, ma poi crebbe nella nostra città fino a quando a 15 anni, allo scoppio della Seconda Guerra d’Indipendenza, si arruolò nell’esercito sardo combattendo a San Martino e guadagnandosi una promozione a caporale sul campo.
Non si hanno notizie di visite di Cipriani a Rimini fino al 1881: aveva nel frattempo trascorso 22 anni intensi di vicende: disertore per partecipare alla spedizione dei Mille, garibaldino all’Aspromonte, rivoluzionario in Grecia, delegato alla I Internazionale, esploratore in Egitto nella spedizione Miani alla ricerca delle sorgenti del Nilo, combattente con Garibaldi nella Terza Guerra d’Indipendenza, di nuovo rivoltoso a Creta, fondatore di società operaie in Egitto, fotografo a Londra grazie a Mazzini, marito di Adolphine Rouet morta poco dopo aver dato alla luce una figlia che ritroverà fortunosamente solo nel 1908, comunardo a Parigi nel 1871, galeotto in Nuova Caledonia fino al 1880, anarchico in Svizzera, quando, come emerge dal suo diario pubblicato dall’amico Paolo Valera…
“Il 31 gennaio 1881 giungevo da Roma a Rimini in treno alle 9 di sera, dopo un’assenza di 22 anni. Me ne ero andato quindicenne, pieno di entusiasmo, di vita e di speranze, lasciandomi al dorso una famiglia numerosa. Vi rientravo vecchio, disilluso, perseguitato. Credevo di giungere in tempo ad abbracciare mio padre. Volevo abbracciare la mia buona Amalia e il caro Alceste. Il fratello era in prigione e io venni agguantato subito dalla polizia. Si dice che io sia stato denunciato da qualche spia. Può darsi. Non ne so niente. Il maresciallo dei carabinieri mi ha veduto scendere dal vagone e mi ha arrestato senza uno straccio di mandato. Circondato da un gruppo di gendarmi e di birri, venni rinchiuso in una carrozzella e condotto al trotto alla caserma della piazza della Rocca. Perquisito alla presenza di un delegato, dal sottoprefetto de Conti e dal luogotenente dei carabinieri Moretti, domandai loro di essere condotto al letto del padre morente. Non s’impietosirono. Il pretesto era l’ora tarda. Fui consegnato alla Rocca. Subii un’altra visita. Lo «sgherro» mi chiuse in un camerone alto, scuro, sporco, gelato come una ghiacciaia, con un pagliericcio e due pezzi di coperta che non bastavano a coprirmi. Rimasi al buio. Mezz’ora dopo rientrò a ispezionare accuratamente le inferriate, i muri, il pavimento, percuotendo un po’ dappertutto. Nell’aria umida, tutto assiderato, non potevo nè sedere, nè coricarmi, nè passeggiare. C’erano molti topi neri. Mi passavano sulle scarpe. Per liberarmene feci dei passi. Mi fu ingiunto di stare quieto. Chiesi una coperta: negata; uno sgabello, rifiutato. Allora mi ribellai. Passeggiai tutta notte, a dispetto dello sgherro imbestialito…
Mi si era arrestato per cospirazione contro la sicurezza dello Stato — motivo elastico col quale si sopprime ogni anno la libertà a migliaia di cittadini… In Italia il detenuto politico è come il detenuto comune. È sottoposto alle perquisizioni oscene, alle insolenze, ai cattivi trattamenti, al vitto immangiabile, alle celle inabitabili, ai sacconi sudici, alla mancanza d’aria e di moto. Da noi si è feroci: mi si è negato perfino di vedere il mio vecchio genitore in fin di vita.
La sudiceria della Rocca era incredibile. Si leggevano sulle pareti iscrizioni vecchie di dieci anni. Gli usci e le finestre eran fracide. I vetri rotti e i rulli opachi lasciavano entrare pioggia, vento, neve, grandine. Il freddo intirizziva. Per scaldarci bisognava pestare i piedi, sbattere le braccia, fiatarci sulle dita. La notte invernale era di sedici ore lunghe, noiose, terribili, in cui il prigioniero si voltolava fra le lenzuola ruvide e gelate, in un silenzio di tomba. Io tossivo nel supplizio. Si andava in cella di rigore a pane e acqua per i minimi rumori. Ci si gettava nella buca sotterranea, nudi, condannandoci a sdraiarci sulla lastra di marmo bagnata e ci si chiudeva dentro senza coperta, con la finestra spalancata sul capo.”
Cipriani ebbe per circa 15 giorni questa ospitalità nella sua “cittaduzza” e in quella Rocca che ora è in procinto di diventare Museo Fellini, quando poi fu trasferito prima a Milano, dove l’accusa di cospirazione cadde: si attendeva la libertà ed invece fu trasferito ad Ancona accusato di aver ucciso un uomo quando era in Egitto 12 anni prima. Le garanzie per la difesa furono minime (conobbe l’imputazione solo cinque giorni prima dell’inizio del processo) ed egli fu condannato, nonostante la prescrizione del reato, a 25 anni di carcere duro da scontare nel penitenziario di Porto Longone, ora Porto Azzurro, nell’Isola d’Elba.
Questa volta la Romagna insorse contro la sentenza: si svolsero manifestazioni e per opera dell’avv. Caio Renzetti sorse un comitato per ottenere la liberazione di Cipriani, in cui parteciparono tra gli altri Filippo Turati, Andrea Costa, Aurelio Saffi e Giosuè Carducci; la sua figura riusciva sorprendentemente a riunire repubblicani, socialisti, anarchici e radicali i quali concordemente ritenevano la condanna politica.
Fu eletto deputato nelle elezioni del 1886 sia nel collegio di Forlì che nel collegio di Ravenna, ma l’elezione fu annullata.
Nell’occasione il carcere se possibile fu ancora più duro: “Durante una perquisizione il Simon [capo delle guardie] andò sulle furie, chiamò tutti gli sgherri che mi trattennero, mi violentarono, mi piegarono, mi imprigionarono nelle loro braccia e mi incatenarono. Incatenato il maledetto Simon mi svillaneggiò chiamandomi omicida. Tutto questo avveniva dopo le elezioni di Pesaro, dove io non sono stato eletto per 300 voti contro il prof. Panzacchi.
Sembrava che gli onori che mi tributavano i cittadini lo indispettissero. Eletto a Forlì e a Ravenna egli ebbe l’imprudenza di venire a dirmi:
— Ah! fra poco farò mangiare un po’ di pane e acqua al signor deputato.
E ha mantenuto la parola. Io ho avuto il torto di perdere la pazienza e di rintuzzare le sue insolenze con altre insolenze.
— Taci, abborritissimo birro — gli risposi — tu non hai mai avuto tanto onore da che mi custodisci. Valgo più io nella ruggine della mia catena che tu in tutta la tua abbiettissima persona…
Continuai con serque d’improperii fino a quando non l’ho veduto scappare. Credevo avesse avuto vergogna di sè. Egli è ritornato con una dozzina di sgherri coi pugni chiusi.
Io mi lasciai incatenare al muro e mi sdraiai in terra per più giorni a pane ed acqua”.
Ciò nonostante rifiutò sempre di chiedere la grazia e allora Giuseppe Zanardelli, appena divenuto Guardasigilli nel governo Depretis ottenne un atto di clemenza che liberò Cipriani dalla prigionia.
Il viaggio di ritorno a Rimini fu trionfale:
La Stampa così riportò il viaggio: “Diamo le seguenti notizie sui ricevimenti fatti in Romagna dai suoi correligionari politici ad Amilcare Cipriani. Questi, come si sa, partiva da Milano la sera di sabato diretto a Bologna. Durante il viaggio fu festeggiato a Parma, alla cui stazione lo attendeva un nucleo di lavoratori… [A Bologna] altri amici erano venuti di Romagna ad incontrarlo e gli fu offerto un banchetto di 37 coperti… Partì alla volta di Rimini. Lungo alle stazio gnose, Faenza, Furli, Forlimpopoli, Cesena… ed alle stazioni di minor importanza. A Rimini i ricevimenti erano stati preparati e organizzati dalle Associazioni. Il treno entrava sotto la tettoia alle 4,40. La banda municipale, concessa dal Comune, intuona l’inno di Garibaldi fra gli applausi e le grida di Viva Cipriani! Una folla enorme attornia il vagone, tanto che a stento gli amici di Cipriani riescono a farlo discendere e ad aprirgli un varco per condurlo nella sala d’aspetto. Fuori della stazione stanno schierate le Associazioni riminesi… All’apparire di Cipriani scoppia un immenso applauso e si udirono le solite grida: Viva Amilcare Cipriani! Viva il colonnello della Comune! Viva il martire socialista! ecc., ecc. Precede la banda cittadina colla bandiera comunarda rossa filettata di nero e con nastri neri. Il corteo si muove o la folla s’ingrossa enormemente. La circolazione delle carrozze è impedita. L’avanzarsi anche lentamente è difficile. Nonostante gli sforzi degli amici che lo attorniano, Cipriani è sospinto. Le musiche e lo fanfare intonano gli Inni. Il corteo percorre le vie principali in mezzo alla acclamazioni entusiastiche della moltitudine. Giunto in via Teatini, Amilcare Cipriani sale all’abitazione del fratello Alceste ed è costretto a presentarsi alla finestra accompagnato da Carpesani e da Cima. Il Cipriani ringraziava sorridendo.
Egli volle riveder subito la sorella. L’incontro fu commoventissimo. Allora fu di nuovo intuonato l’inno di Garibaldi; al grido di Viva Cipriani si sciolse il corteo al quale presero parte non meno di 5000 persone. Nessun apparato di forza. Ordine perfetto… Fu notato che la locomotiva del treno che conduceva Cipriani portava il nome di libertas.”
Il soggiorno riminese durò però poco: come un’anima inquieta Cipriani tornò a Parigi, anarchico, ancora incarcerato in Italia, di nuovo combattente in Grecia dove fu seriamente ferito.
Fu eletto ancora deputato in Italia ma dichiarato decaduto per non aver giurato fedeltà al re, nuovamente eletto nel 1913 per merito di Mussolini
Fu dichiarato decaduto anche questa volta; allo scoppio della prima guerra mondiale fu interventista nel 1914 a favore della Francia.
Purtroppo però si ammalò seriamente proprio in quell’anno: subita una gravissima operazione, non era mai riuscito a rimettersi.
La Stampa del 3 maggio 1918: “Il nostro corrispondente parigino (D. R.) ci telegrafa in data 2 notte: Amilcare Cipriani, che da quattro anni giaceva paralizzato, era divenuto l’ombra di se stesso. (E’ morto l’altra notte all’Ospedale Dubois, dove due mesi fa era stato trasferito dal miserabile tugurio di avenue Clichy, che fu per un ventennio la sua dimora. Del vecchio rivoluzionario non restano che i ricordi. Egli si è spento nella miseria e nell’abbandono. Una magra pensione accordatagli dall’amministrazione del giornale socialista l’Humanitè gli avrà permesso di non morir di inedia. Nessun parente, nessun amico assisteva alla sua fine. La figlia, vedova del pittore Vely, che egli aveva ritrovate in modo romanzesco presso Parigi dopo quarant’anni è lontana, infermiera in un ospedale di Salonicco. Suo fratello è a Rimini, ove la notizia gli è stata oggi comunicata. Solo il Matin e L’Humanité dedicano brevi cenni al morto.