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Donne di fronte alla guerra

Ancora vivono nel ricordo, dopo 76 anni, le paure e i pericoli subiti dalle donne durante il passaggio del fronte

L’altra metà del cielo ha vissuto la guerra ma se ne è sempre parlato poco. Si descrivono battaglie e strategie, generali e soldati, insomma chi la guerra la faceva, ma non si racconta di chi la subiva. Se si esegue però un veloce calcolo, tenendo conto di donne, vecchi e bambini, il 70 o l’80% della popolazione ha visto e purtroppo sentito sulla propria pelle unicamente le conseguenze più nefaste degli eventi bellici: distruzioni, privazioni, disagi, malattie, fame, lutti e soprattutto paura, tanta paura.
Ricordo i racconti del terrore delle mie nonne: una, cinquantenne, aveva in casa un gruppo di tedeschi i quali, pur rispettandola, le avevano detto che se fosse capitato qualcosa a loro, i primi che avrebbero subito la ritorsione sarebbero stati i suoi figli. Ogni giorno quindi poteva essere foriero di terribili conseguenze, considerando poi che il suo figlio maggiore, già renitente alla leva, era clandestinamente in contatto con la resistenza e il suo defunto marito aveva già subito persecuzioni per antifascismo.
L’altra nonna, di 38 anni, era incinta di mia zia proprio durante il passaggio del fronte, con un marito, già ufficiale del regio esercito, fuggito per non essere deportato in Germania e nascosto.
Le narrazioni potrebbero essere innumerevoli, perchè in fondo ogni abitante di questa terra avrebbe avuto qualche episodio da raccontare. Per le poche righe di questo articolo ho voluto scegliere due testimonianze di donne che hanno vissuto l’esperienza della guerra e che ancora oggi, a distanza di 76 anni, la ricordano perfettamente; due donne che vivevano nello stesso stradello di via Covignano, ma che, a causa del conflitto, furono divise ed ebbero vicende differenti.
Per entrambe il contatto diretto con gli eventi bellici avvenne con il primo bombardamento del 1° novembre 1943, momento in cui la retorica di un regime destinato al fallimento si rivelò un’immensa finzione e tutti dovettero rendersi conto della realtà: si stava perdendo la guerra e i vincitori ora si sarebbero accaniti su chi l’aveva scatenata.

Luigina Bagli

Angela Biondi

Luigina Bagli, nota a tutti come Gigia, aveva 19 anni: orfana fin da bambina era stata amorevolmente allevata da uno zio; dopo un apprendistato da sarta presso la famosa Nella Maggioli, lavorava autonomamente. Il bombardamento la colse mentre stava provando un vestito nell’attuale via Vega: ebbe una grande paura ma all’inizio l’ottimismo, irrazionale, prevalse; i successivi bombardamenti tuttavia la portarono a rifugiarsi con gli zii prima alle pendici di Covignano e poi a Trarivi il cui prete, don Migani, era il fratello della moglie di uno zio.

Angela Biondi invece aveva 12 anni e sarebbe dovuta andare a scuola ma, da quel giorno, pur essendo di festa, tutto cambiò: l’istruzione soccombeva alla necessità della sopravvivenza. I suoi genitori compresero subito che la situazione non era per nulla tranquilla in città e si rifugiarono nella stazione di Spadarolo della ferrovia Rimini – Novafeltria; poi, dato lo spazio angusto (Angela aveva due sorelle di cui una di 2, 3 anni), in una vicina casa di contadini ed infine a Torello.
I problemi erano immensi e inattesi: non si era preparati né psicologicamente né materialmente, per cui mancava tutto, dal cibo alla biancheria, due elementi essenziali per la vita di tutti i giorni. Ci si organizzò e si trovò cibo per sfamarsi, con fatica e disagi inenarrabili. Le difficoltà erano dovute soprattutto alla scarsità di acqua e di sapone, l’igiene personale diventava molto complicata e per le donne questo rappresentava un problema continuo molto sentito.
Le ristrettezze però aumentavano sempre e nel frattempo si avvicinava il fronte: la presenza delle truppe tedesche fece salire di colpo la paura già forte e a questo si aggiungevano i sempre più frequenti bombardamenti.
Era il momento peggiore: all’inizio dell’estate del 1944, il fronte si avvicinava alla Linea Gotica, nello stesso tempo si intensificava la lotta partigiana e la conseguente repressione. Luigina ne conserva un ricordo indelebile dormiva in una stanza con il cugino Giorgio quando arrivò una pattuglia germanica alla ricerca di partigiani. I due vennero svegliati improvvisamente da urla e grida in tedesco e mitra spianati. Per qualche sconosciuto motivo i militari erano convinti che vi fossero dei partigiani. La paura, gli strepiti e le suppliche sortirono l’effetto di calmare i soldati che si resero conto che si trattava di una donna e di un bambino di 13 anni e perciò se ne andarono; per fortuna non trovarono lo zio che si era nascosto e che probabilmente sarebbe stato preso come sospetto resistente. Il ricordo del fatto ha accompagnata la giovane per tutta la vita e tutte le notti.
Questa paura si sommò ad un altro momento di grave pericolo: nella spasmodica ricerca di acqua, Luigina era per la campagna quando un aereo alleato la vide si avvicinò mitragliandola ma lei scampò miracolosamente ai proiettili.
Angela ricorda il trauma dei continui bombardamenti, il rumore ossessivo degli aerei e degli scoppi, il costante terrore di rimanere sepolti sotto le bombe, di essere uccisi da qualche scheggia: in particolare una sorella di 8 anni era talmente ossessionata da non voler mai uscire di casa, con le immaginabili conseguenze, mentre l’altra sorellina, scioccata, non parlava mai; anche la penuria della biancheria e la mancanza del sapone erano difficili da sopportare e ciò si aggiunse la perdita di una ciabatta che le rese doloroso il camminare.
Giunto luglio, non si era più al sicuro in Italia, restava ormai solo lo Stato, teoricamente neutrale, di San Marino, con le gallerie del trenino che lo collegava a Rimini come unici ripari a fornire una protezione agli sfollati.
Li aspettavano rotaie, traversine, un precario telo di divisione e una marea di persone nelle stesse condizioni. Alcuni, più previdenti, erano giunti prima e avevano portato anche alcune masserizie; Luigina e i parenti invece non avevano nulla e dovevano dormire per terra: «Cibo e acqua si avevano grazie all’opera degli uomini che sfidavano i pericoli per procurarseli. Le necessità personali dovevano essere soddisfatte all’aperto, dove e come si poteva. Un cugino in tenera età soffriva di bronchite asmatica e il dottor Ugolini, sempre prodigo di consigli, disse di destinare a lui l’unico pollo che avevamo perché sopravvivesse. Una zia andava la mattina in città a San Marino per rimediare un po’ di pane, destinato prevalentemente al cugino ammalato e noi ci dovevamo accontentare di quello che restava: certamente avevamo molta fame tanto che, una volta, mio cugino Giorgio è tornato, sempre a piedi, a Trarivi per prendere un sacchetto di farina con cui abbiamo cotto una piada». Purtroppo una terribile notizia la colse: uno degli zii era morto sotto un bombardamento e lo zio che le faceva da padre era stato ferito in modo non grave, coperto fortunosamente proprio dal corpo del fratello investito dalle schegge.
Angela era stata più fortunata, se così si può dire: in un’altra galleria i suoi genitori avevano portato anche due materassi, uno piccolo per babbo e mamma e uno grande, con l’unico lenzuolo, per le tre bambine; con una coperta si fece un divisorio per conservare un’apparenza di riservatezza. Ogni giorno il padre si recava in cima al Titano, dove dei parenti possedevano un forno, a prendere il pane e lo distribuiva in parte anche ad altre famiglie che ne erano prive: la visione dell’estrema fame patita da tanti non l’abbandonerà mai.
La fine dell’estate, il 21 settembre, portò l’autunno ma anche la fine di quell’odissea: finalmente il fronte era passato, Rimini era stata liberata, si poteva tornare a casa. Lo spettacolo era però desolante, per le distruzioni e per tutto ciò che mancava. Il mondo di ieri era scomparso, il mondo di oggi era deprimente ma il mondo di domani dava speranza, speranza che finalmente prendeva il posto della paura.
Luigina rientrò nella casa riminese, Angela invece doveva attendere: una bomba aveva lesionato la sua dimora. Il padre trovò allora la soluzione di andare dalla suocera, che aveva l’Osteria Pettini, poco lontana, ma uno spettacolo atroce lo fermò: un mese e mezzo prima in quelle stanze erano stati torturati i tre martiri, poi impiccati più morti che vivi, e le pareti erano ancora sporche del loro sangue. Perciò, prima di portare la famiglia pensò di imbiancare le pareti per non mostrare quell’orrore alle tre bambine.
I pericoli non erano però terminati: le truppe alleate erano onnipresenti e l’idea che in fondo l’Italia era terra di conquista era presente nelle menti di molta soldataglia, che approfittava delle armi indossate per compiere violenze. Gli adulti tendevano a nascondere certe notizie per non impaurire i più piccoli: Angela lo seppe anni dopo, anche se aveva comunque una gran paura dei soldati che giravano; Luigina in età più critica, doveva essere costantemente controllata. Si seppe che qualche altra coetanea aveva purtroppo dovuto subire atti vergognosi, generalmente rimasti poi impuniti. Fortunatamente i militari alleati incontrati furono invece sempre gentili anche se il loro aiuto, in beni e cibo, spesso veniva rifiutato per non correre rischi.
La vita riprese e Angela ebbe la fortuna di incontrare un’amica, figlia di una parrucchiera, che aveva recuperato un vecchio ferro che riscaldava; con quello, le fece i boccoli: i complimenti di un cugino le fecero rinascere la speranza di un mondo migliore. Quel semplice gesto in quel piccolo microcosmo confermava in fondo ciò che aveva detto il grande filosofo Spinoza: “Non c’è speranza senza paura, nè paura senza speranza”.

La crisi umanitaria a San Marino

Il Capitano Reggente Francesco Balsimelli ricorda: «Nelle gallerie migliaia e migliaia di persone dormivano su improvvisati giacigli allineati ai margini delle rotaie. La circolazione dell’aria era insufficiente. A Serravalle le gallerie erano diventate un alloggio impossibile per la ressa degli ospiti, per le piogge che lasciavano filtrare acqua e per l’improvviso incrudire della stagione. Erano gremite di migliaia di persone che sostavano agli imbocchi per respirare, riversandosi dentro ad ondate spaventose ad ogni scoppio di granata vicina. Due bambini rimasero uccisi nella ressa il 6 settembre». Il commissario alle gallerie, ing. Remy Giacomini, aveva allestito agli sbocchi cucine di fortuna, con improvvisati giganteschi fornelli dove povera gente si presentava, come in un campo di prigionieri, con scodelle, recipienti d’ogni specie a ricevere la razione di minestra, previo acquisto di un buono che costava 6 lire; né la minestra veniva fatta mancare a chi non aveva le 6 lire.
Ai primi di settembre la situazione si fece addirittura caotica perché in alcune zone del territorio cominciarono a piovere le granate dei tiri incrociati e nella massa dei concittadini e dei profughi veniva ingenerandosi il panico. Tutti volevano andare a rifugiarsi nelle gallerie ormai traboccanti, la cui situazione diveniva di giorno in giorno più insostenibile. Il commissario Giacomini dichiarava di non essere più in grado di controllare la situazione, né di garantire l’approvvigionamento di così grande marea di gente, né di poter assicurare l’igiene e la moralità.

Nota bibliografica

Per gli eventi bellici che hanno investito San Marino:
Amedeo Montemaggi, San Marino nella bufera- 1943-44 Gli anni terribili, Repubblica di San Marino, Arti Grafiche della Balda (RSM), 1984
Amedeo Montemaggi, Linea Gotica 1944. La battaglia di Rimini e lo sbarco in Grecia decisivi per l’Europa sud-orientale e il Mediterraneo, Rimini, Museo dell’aviazione di Rimini, 2002
Amedeo Montemaggi, Itinerari della Linea Gotica 1944. Guida storico iconografica ai campi di battaglia, Rimini, Museo dell’aviazione di Rimini, 2010

Ariminum, luglio agosto 2020