In qualche misterioso modo sono tornato al 1974, cinquant’anni fa. Il mondo era diverso certamente, ma di ciò che nel frattempo era stato inventato – computer o cellulari internet, solo pensando alla tecnologia – non sentivo la mancanza. Studente in quarta ginnasio, mi rivedo in un’assemblea scolastica infuocata, si discuteva della crisi del capitalismo, del modello sociale antiquato, dei professori, “matusa” insensibili alla nuova temperie, e più in generale della scuola, inevitabilmente sorpassata. In fondo si trattava di una coda del ’68 (che fra l’altro da noi è arrivato leggermente più tardi). La via di soluzione era il Marxismo, la lotta di classe, gli operai delle fabbriche che costituivano la forza motrice per la rivoluzione. Nella scuola gli studenti più all’avanguardia protestavano contro l’autoritarismo della cattedra e il nozionismo, costituivano un collettivo per chiedere la formazione di gruppi di studio anziché la cosiddetta “lezione frontale”, riecheggiando la rivoluzione culturale cinese. Tutti contestavano tutto. Era vietato vietare. L’immaginazione doveva andare al potere.
Il ricordo mi raffigurava così quei tempi. E sebbene la memoria giochi a volte brutti scherzi, la situazione mi era completamente chiara, i miei occhi la vedevano come se fosse stato ieri. Percepivo ancora un sentimento positivo alla base, un ottimismo comune, forse ingiustificato, per cui tutto non poteva che migliorare: la lotta portava ad una conquista, la discussione all’avanzamento. Se nel decennio trascorso il progresso era stato economico, ora doveva diventare sociale. Se negli anni Sessanta c’era stata una continua fioritura di iniziative imprenditoriali, negli anni Settanta era necessaria una maggior distribuzione del benessere e una stagione di diritti. Si parlava di divorzio perché ci sarebbe stato il referendum abrogativo, si parlava della fabbrica e dello Statuto dei lavoratori, si parlava di femminismo e di diritti che le donne dovevano raggiungere: si stava infatti discutendo della riforma del diritto di famiglia e delle pari opportunità. Ma sempre e tutto era “progresso”.
Dall’epoca dell’Illuminismo l’uomo ha guardato al futuro come non solo una speranza ma anche come fede nell’uomo stesso, convinto che le novità portassero non solo del bene ma anche felicità. Poi la realtà di oggi ha improvvisamente cancellato questa visione. Che cosa è rimasto? Forse qualche legge ma quello spirito è svanito. Dov’è quell’ottimismo, dov’è quell’entusiasmo? Dov’è quella fiducia nel progresso? Il sol dell’avvenire che Garibaldi vedeva nel socialismo è tramontato? Nulla nova bona nova?
I sogni, spesso pazzi, portati avanti con pochi mezzi ma con tanta determinazione, basati solo sull’incrollabile idea che il domani non potesse che essere migliore dell’oggi, sono ora illanguiditi, smorzati, smarriti.
Colpa dello Stato, delle tasse, della burocrazia? Forse, ma anche di noi stessi che, quando vogliamo conservare e salvaguardare, attanagliati dalla paura di perdere, esprimiamo solo rimpianti.
Ariminum, marzo aprile maggio 2024