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75 anni fa la strage di Cibeno, a Fossoli

Tra le 67 vittime, tre martiri del nostro territorio: oltre al saludecese, Walter Ghelfi e Rino Molari

Renato Mancini

Perché il 12 luglio 1944 i tedeschi uccisero al poligono di tiro del Cibeno a Fossoli 67 prigionieri? Fu uno dei maggiori eccidi della seconda guerra mondiale avvenuti in Italia eppure a questa domanda gli storici non sanno ancora dare una risposta precisa.

Sicuramente non la potrà mai fornire Renato Mancini che fu trucidato insieme ad altri due romagnoli, Walter Ghelfi e Rino Molari. Mancini era nato a Saludecio il 26 maggio 1914; volontario nell’Esercito Italiano in cavalleria, nel III gruppo carri leggeri “San Giorgio”, quando l’Italia entrò in guerra, con il suo reparto andò a far parte della divisione “Celere”.

Nel 1941 la formazione, inquadrata nel Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR) fu impiegata nell’attuale Ucraina: con l’avvicinarsi dell’inverno, Mancini partecipò a diverse battaglie molto impegnative, a temperature che scendevano a meno 40°, con punte fino a meno 47°. In queste condizioni climatiche drammatiche, ogni problema si accentuava: il rancio e le bevande (acqua e vino) gelavano e dovevano essere sciolti sulla fiamma, il rischio congelamento era sempre in agguato (i turni di guardia erano limitati a mezz’ora), era impossibile muoversi velocemente sulla neve senza sci e racchette, perfino l’olio anticongelante delle armi automatiche si rapprendeva e i motori dovevano stare quasi sempre in movimento, perché altrimenti sarebbe stato quasi impossibile farli ripartire.

Mancini combatté valorosamente e fu promosso Maresciallo ordinario nel febbraio 1942 per meriti di guerra. L’ultima notizia “militare” è del luglio 1942: tornò dall’Ucraina con il suo reparto e da quel momento il foglio matricolare non riporta più nulla. Da accertamenti eseguiti personalmente risulta che fu comandato a Pinerolo dove probabilmente lo colse l’armistizio dell’8 settembre 1943.

Durante la campagna di Russia, Mancini ebbe occasione di stringere amicizia con alcuni suoi commilitoni e con un tenente bresciano, Aldo Gamba, anch’egli in forza al III gruppo “San Giorgio”: all’armistizio l’ufficiale da Pinerolo era fuggito in Svizzera ma il 26 dicembre 1943, desideroso di partecipare alla Resistenza, era rientrato nel bresciano, dove operavano le “Fiamme Verdi”, partigiani di matrice cattolica. Qui costituì un nucleo del “Reseau Rex”, rete informativa che forniva notizie all’addetto militare del Regno del Sud, agli svizzeri, ai francesi di France Libre e agli Inglesi.

Gamba formò, in Lombardia e nel Veneto, gruppi di 3 – 4 persone tra ex commilitoni o compagni di scuola che non si conoscevano tra loro, per un totale di una ventina di aderenti: l’attività resistenziale era basata soprattutto sull’intelligence, comunicando agli Alleati informazioni e documenti sui movimenti e sulle azioni delle formazioni tedesche e fasciste, in particolare la Guardia Nazionale Repubblicana[1].

Un gruppo di resistenza monarchico collegato (il V.A.I., Volontari Armati Italiani) aveva però all’interno una spia che, a Milano, fece catturare Gamba il 17 aprile 1944: il partigiano, rinchiuso a San Vittore, subì violenze, maltrattamenti e un duro interrogatorio[2]. Il 20 aprile anche Mancini fu arrestato a Verona; portato nel carcere milanese subì lo stesso trattamento di Gamba, per mano di un celebre personaggio, Luca Osteria detto “Ugo”, cioè colui che pare abbia poi favorito la liberazione di importanti personaggi come Ferruccio Parri e Indro Montanelli.

Il 22 maggio Gamba riuscì ad evadere, mentre Mancini e gli altri il 9 giugno furono portati al campo di concentramento e transito di Fossoli, gestito dalle SS: le tremende condizioni della prigionia sono testimoniate dal brutale assassinio, avvenuto il 21 giugno, di Leopoldo Gasparotto, figlio di Luigi Gasparotto, ministro prima e dopo il fascismo.

Il campo di Fossoli

Il 12 luglio 1944 fu emanato un ordine terribile: 69 prigionieri, divisi in tre gruppi, dovevano essere fucilati senza alcun processo al vicino poligono di tiro di Cibeno in base ad una lista predisposta[3]. Il secondo gruppo, nel quale era inserito Mancini, giunto sul luogo di esecuzione, si ribellò: due condannati riuscirono a evadere ma il saludecese purtroppo fu freddato dai colpi delle SS che reagirono al tentativo di fuga. I corpi furono straziati, privati dei segni di riconoscimento e seppelliti sotto calce viva in un’anonima e nascosta fossa comune: solo nel maggio del 1945 si seppe del massacro.

Gli interrogativi sulla strage per gli storici sono tuttora tanti; solo per citarne qualcuno: chi ordinò l’eccidio? Per quale reale motivo fu deciso? Perché fu tenuto nascosto? Perché la maggior parte dei fucilati erano militari o esponenti cattolici? Perché chi sapeva tacque fino al termine della guerra? Perché altri che sapevano non hanno mai parlato? Perché le indagini del dopoguerra non portarono all’accertamento della verità? Grazie al sindaco di Saludecio Dilvo Polidori e all’ANPI di Rimini[4], si è riusciti a riportare alla luce la storia di Renato Mancini, un eroe in un momento tanto infelice del nostro paese: come dice ad Andrea Sarti il Galileo di Bertolt Brecht, Unglücklich das Land, das Helden nötig hat, «sventurata la terra che ha bisogno di eroi».

Immagine della celebrazioni in onore di Mancini a Saludecio, 12 luglio 2019

Note

[1] Le carte di Aldo Gamba sull’attività partigiana compiuta sono attualmente depositate presso la sede di Brescia dell’Università Cattolica “Sacro Cuore” il cui responsabile, prof. Rolando Anni, ha gentilmente concesso l’esame della documentazione.

[2] Gamba, evaso dal carcere, riparò in Svizzera e raccontò ad un giornale badogliano elvetico, «La Squilla Italica» (3 giugno, 10 giugno e 1 luglio 1944) la sua cattura e fuga; ringrazio per la sua preziosa collaborazione Oscar Guzzon, bibliotecario dell’Archivio di Stato della Repubblica e Cantone Ticino.

[3] Il numero prefissato era di 70 vittime, ma una di esse, Teresio Olivelli, riuscì a nascondersi in una baracca del campo prima di essere condotto sul luogo della fucilazione. Olivelli fu catturato qualche giorno dopo e inviato nel campo di concentramento di Hersbruck dove morì a causa delle sevizie e delle percosse subite per il suo atteggiamento caritatevole e cristiano nei confronti degli altri detenuti; per questi motivi è stato proclamato beato.

[4] Occorre citare in particolare Lanfranco De Camillis, Julco Albini ed Ermanno Vichi per la determinazione nell’onorare questa nobile figura della Resistenza, che ci auguriamo possa avere anche un riconoscimento ufficiale da parte dello Stato per il suo eroismo.

Per saperne di più

www.fondazionefossoli.org

A. M. Ori-C. Bianchi-M. Montanari, Uomini nomi memoria. Fossoli 12 luglio 1944, Fondazione Fossoli, Carpi 2004

P. Paoletti, La strage di Fossoli, Mursia, Milano 2004.

F. Fucci, Spie per la libertà. I servizi segreti della Resistenza italiana, Mursia, Milano 1983.

L. Casali-P. G. Molari, Per non dimenticare Rino Molari, ANPI, Santarcangelo di Romagna 2017

Ariminum, maggio giugno 2019