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AMARCORD, poema della provincia e dell’amicizia

Visione epica dei vizi del provincialismo e delle virtù dell’amicizia nelle parole di Fellini e di Titta Benzi

Fellini al centro con gli amici Mario Montanari a sinistra e Luigi “Titta” Benzi a destra (Foto Davide Minghini © Biblioteca “Gambalunga” Rimini)

Il film felliniano più legato all’immaginario cittadino è senza dubbio Amarcord: su di esso, analizzato e sviscerato in tutte le sfaccettature, sono stati scritti fiumi di inchiostro. La genesi è stata alquanto contorta, abilmente dissimulata dallo stesso Fellini il quale disorientava perché egli stesso era disorientato: quando, nel corso di un’intervista rilasciata poco prima di iniziare le riprese, rivelò il nome definitivo della pellicola, i giornalisti seppero che «Amarcord sarà dunque la storia del viaggio di un uomo “disintegrato” verso la propria rigenerazione; ma non è dato ancora sapere, dal regista, se questo itinerario esistenziale avrà un approdo e quale “La conclusione del film — dice Fellini — sarà condizionata da mille elementi: vi contribuiranno l’operatore di cabina, il direttore della sala di spettacolo, il pubblico” quest’ultimo, cioè, dovrebbe essere in qualche modo ‘coinvolto’ direttamente nell’esito del dramma, sentendovi echeggiare le proprie stesse disperazioni e speranze»1.

Forse il titolo Il Borgo era più indicativo delle reali intenzioni del regista, il quale infatti precisò che pensava al «borgo inteso nel senso di chiusura medievale, la provincia vissuta come isolamento, separazione, tedio, abdicazione, decomposizione, morte»2.

Fu Tonino Guerra ad addolcire, con la sua poetica, la visione, inizialmente così pessimistica, del regista riminese. Come ha ricordato Moraldo Rossi, aiuto regista di Fellini in tanti capolavori, «metafisica e metafora, nel film, prendono il volo sulla sensibilità che Tonino Guerra ha sempre cantato»3. Con il santarcangiolese, Fellini s’intese subito4: «anche lui aveva da raccontare storie simili alle mie, personaggi che avevano in comune con i miei la stessa follia, la stessa ingenuità, la stessa ignoranza di bambini malcresciuti, ribelli e sottomessi, patetici e ridicoli, sbruffoni e umili».

E in questo modo venne fuori il ritratto di una provincia italiana, una qualunque provincia, negli anni del fascismo, con i suoi evidenti difetti: «Che cos’è il Borgo se non il riassunto dell’Italia più povera e arretrata? La cittadina che ho inventato rappresenta l’eterna provincia dell’anima, un luogo dove la mancanza di cultura è il legame dei difetti collettivi. I provinciali credono nell’autorità e la cercano; desiderano una figura protettiva, il padre, la chiesa, il partito, il ministro. I provinciali non crescono mai, la loro ambizione è di restare infantili: questo atteggiamento ha certo il suo fascino ed è difficile abbandonarlo. A ragione ho detto che il film sarà insieme ridicolo e struggente»5.

Il più caro amico di Fellini, Luigi “Titta” Benzi, per il regista “Grosso” perché robusto fin dal tempo del liceo e contrastante con l’estrema magrezza di Fellini stesso, chiamato a sua volta Gandhi o “canocia”, sentiva che il cineasta era cambiato, forse proprio a causa di Guerra6: «Ho visto un Federico nuovo. Amarcord è una cosa straordinaria. Federico non è più quello. Dove sono andate la sua mordacità, la sua aggressività, la sua satira spietata? In Amarcord Federico è dolce e tenero. Egli ha scoperto le doti positive dell’essere uomo, una cosa veramente miracolosa per me, che lo conoscevo così bene. E sono estremamente meravigliato e contento ch’egli abbia acquistato serenità e fiducia nell’umanità parlando di me, identificandosi con me. Ah, se avessi potuto prevedere»7.

Per Titta «il borgo è la vera città dell’uomo. Perchè credi forse che a Roma o a Milano la gente si sente più felice che a Rimini? L’alienazione l’hanno inventata loro, non noi! “Come nostalgia di un mondo così?” – confessa Fellini a Gian Luigi Rondi – “Eh sì perché quella è stata una parte della nostra vita e il rimpianto è altrettanto inevitabile del rifiuto”». Aveva detto invece qualche mese prima un irato Fellini, infastidito dalle voci che circolavano sulla pellicola che stava girando: «Non voglio più sentire parlare di Rimini. Ogni tanto qualche compagno di scuola, bravissima persona, si presenta ai giornalisti e dice di essere la figura principale del mio prossimo film. Tira fuori fotografie ingiallite e vecchi autografi. Quanto durerà? Vogliamo capire che non è vero niente? Il borgo di Amarcord non è Rimini, io sono romagnolo solo per caso e mi ritengo completamente romano. Mi pare d’essere diventato un oggetto turistico e mi ribello. La mia provincia è metafisica, può essere collocata in qualsiasi punto della carta geografica […]. In realtà, io sono nato in Valle d’Aosta»8.

Ma Titta: «Balle. Federico è un sentimentale, introverso, gelosissimo dei suoi pudori, schivo di pubblicità. Le sue bugie, grandi, immense, non sono altro che una cortina di fumo, di chiacchiere dietro la quale nasconde se stesso, timoroso di essere scoperto, individuato, selezionato, esposto alla vista di tutti, alla morbosa curiosità della gente. […] La nostra vita è la vita del Borgo – ho detto sempre a Federico». La sua cittadina Fellini «così come l’ha vista, l’ha rappresentata, poeticamente, con una forza evocativa per cui Rimini vivrà per sempre e sarà la Rimini felliniana, unica, irripetibile, l’archetipo di tutte le cittadine della nostra epoca. Se volessi parafrasare Orazio direi che “la Rimini di Fellini durerà finchè il cinema dura”. Io non credo che nessun’altra città al mondo abbia avuto un monumento così poetico da parte di un suo figlio, un monumento dì tanto amore nostalgico, di un affetto così struggente e dolorante».

Il provincialismo del Borgo è riscattato da alcuni pregi tra cui il più grande è l’amicizia e questi due piani, che si intersecano e si fondono, si imperniano sugli amici d’infanzia e in particolare su Titta, che è l’unico che conserva il proprio nome reale9. Ma “Grosso” vive a Rimini, non è mai riuscito a divincolarsi dalle maglie accattivanti della comoda vita di provincia, diventando un principe del foro: perciò Fellini, mentre irride dei difetti dei provinciali, esalta l’amicizia.

Ciò traspare fin dalla prima pellicola girata da solo, I vitelloni: «mi è venuta la tentazione di giocare ancora uno scherzo a certi vecchi amici che avevo lasciato da anni nella città di provincia dove sono nato. Era una piccola vigliaccheria, ma pensavo che loro – siccome anche se un po’ sfasati sono di pasta buona – non si sarebbero rifiutati di darmi una mano in un momento di difficoltà. Così da qualche giorno mi sono messo a raccontare quello che ricordavo della loro avventure, le loro ambizioni, le piccole manie, il loro modo particolarissimo di passare il tempo. Il guaio è che, tornato a frequentarli, mi sto accorgendo che passo anch’io troppo volentieri il tempo al bigliardo o sulla spiaggia a guardare il mare d’inverno, o a cantare canzoncine oscene nel silenzio notturno delle antiche piazze»10.

«Il film che volevo fare [rappresentava] proprio questo: la necessità di una separazione da qualcosa che ti è appartenuta, nella quale sei nato e vissuto, che ti ha condizionato, ammalato, ammaccato, dove tutto si confonde emozionalmente, pericolosamente, un passato che non deve avvelenarci, e che perciò è necessario liberare da ombre, grovigli, vincoli ancora operanti, un passato da conservare come la più limpida nozione di noi stessi, della nostra storia, un passato da assimilare per vivere più consapevoli il presente». Si tratta in fondo di ciò che Fellini mediterà per tutta la vita: questa impossibilità di sciogliere gli antichi legami delle amicizie adolescenziali nasce dunque fin dall’inizio e sarà una costante della sua vita, e sarà sublimata in particolare in Amarcord, quando addirittura l’amico per eccellenza diventerà un tale alter ego che è impossibile distinguere ciò che è e immagina Fellini da ciò che è e immagina Titta.

Dirà quest’ultimo: «il Titta che la gente vede al cinema, non è il Titta che ti sta parlando, o meglio, non è solo lui, perchè Federico si è riconosciuto in me e in quel Titta cinematografico ha riunito lui a me, in un’opera più di osmosi che di simbiosi. Capisci, io Titta, nel film sono Titta, ma faccio anche le cose che lui, il carissimo “Fella” dei nostri 16 anni, avrebbe voluto fare e che mai osò fare».

Nel 1973 Titta, quando seppe che Fellini avrebbe girato un film sui di lui e sulla sua famiglia, era naturalmente e comprensibilmente pervaso da entusiasmo. Nel marzo di quell’anno si recò a Cinecittà dove vide le scene e addirittura diede consigli a Bruno Zanin che lo impersonava; nel giugno volle rivelare sui giornali: «Amarcord è il mio film, il film della mia famiglia, della mia amicizia, che dura da cinquant’anni, quando andavamo all’asilo insieme […] Gli episodi del film, che Federico estrae dalla sua memoria, sono episodi accaduti a noi due. Io e Federico siamo stati amici inseparabili alle elementari, al ginnasio, al liceo […]. I personaggi sono nostri amici e conoscenze. Gli episodi sono comuni»11. Titta ricorderà: «Quella scena pregnante di mio padre Aurelio che, angosciato per la morte della moglie, raccoglie le molliche di pane sulla tavola della cucina, ebbene quello è Federico alla morte di suo padre. Ce l’ho ancora fissa nelle mente, come una scena d’una tragedia muta. Federico era là, seduto in cucina, e raccoglieva le molliche di pane. Ricordo ancora quella tovaglia, a quadrettini azzurri… Non c’era niente da dire per confortarlo».

Probabilmente Fellini trovava in Titta quel calore umano e quella sicurezza anche fisica che avrebbe voluto avere: «Sai cosa mi dice adesso, Amedeus? Mi dice “Adesso sono grosso come te, Titta. Adesso ti posso dare un pugno anche io” e facciamo una risata. […] A Roma Federico ha sempre lottato e non s’è fatto alcun amico col quale confidarsi e sfogarsi, come fa con me. […] Appena ci vediamo parliamo. E di cosa credi che parliamo? Parliamo di Rimini. Della sua gente, dei nostri amici, dei nostri ricordi, della nostra giovinezza».

Si torna insomma sempre al Borgo e Titta concluderà: «Penso alla sequenza finale di Amarcord, il matrimonio di Gradisca. Il manovale Calzinaz recita una sua breve poesia in italian-vernacolo, versi che vanno sperduti nella confusione. Sperduti sì, ma non abbastanza perchè, tendendo l’orecchio non si sentano lo parole: “Come farai a stare lontana dal borgo?” – canta struggentemente Calzinaz [un Tonino Guerra sublimato?] a Gradisca [lo stesso Fellini?] che piange»

Fellini e il fascismo

Per Fellini, il provincialismo è in stretta connessione con il fascismo, la cui critica è sarcastica e molto efficace nel demolirne la vuota retorica: «Le eterne premesse del fascismo mi pare di ravvisarle appunto nell’essere provinciali, nella mancanza di conoscenza dei problemi concretamente reali, nel rifiuto di approfondire, per pigrizia, per pregiudizio, per comodità, per presunzione, il proprio rapporto individuale con la vita. Vantarsi di essere ignoranti, cercare di affermare se stessi o il proprio gruppo non con la forza che viene dall’effettiva capacità, dall’esperienza, dal confronto della cultura, ma con la millanteria, le affermazioni fini a se stesse, lo spiegamento di qualità mimate invece che vere».

Titta dirà: «noi abbiamo trascorso la nostra giovinezza in un’epoca materialista, muscolare, come era l’epoca fascista. Lui, che esercitava le qualità dell’intelligenza, era per natura e per costituzione un “antifascista” e si difendeva con la presa in giro.

“Ecco, il fascismo appunto, inteso come torpore dell’intelligenza, come condizionamento soffocante della fantasia, della autenticità” ha scritto Fellini a Gian Luigi Rondi, dopo l’uscita di Amarcord. “Vorrei aggiungere, infine, che il fascismo non è stato soltanto un fatto, ma che il fascista è in noi, proprio dentro di noi. Non si può combattere il fascismo senza identificarlo con la nostra parte ignorante, meschina e velleitaria”». Non a caso il repubblicano Ferruccio Benzi è stato trasformato da Fellini nell’anarchico Aurelio che lotta contro qualsiasi potere

Note

1 «L’Unità», 13 gennaio 1973, p. 9.

2 Le citazioni di Fellini, se non diversamente specificato, sono tratte da http://distribuzione.ilcinemaritrovato.it/per-conoscerei- film/amarcord/.

3 Rossi aggiunge poi: «Ci sono scene che si possono considerare vere e proprie firme di quella sensibilità […] Fellini è salito sul tappeto volante che Guerra gli ha messo a disposizione e prende il volo a bordo di questo taxi pregiato, sul quale resta finché gli garba, dal punto di vista produttivo, finché ne condivide la passione per una surrealtà che lo avvicina ai luoghi della sua immaginazione affamata allora di esoterismo, di una materia plastica, deformabile».

4 In realtà Fellini e Guerra si erano incontrati già nel 1957 ma Moraldo Rossi ha detto che il regista non lo prese in considerazione: «alla fine degli anni Cinquanta, non era pronto per quella poetica, tutto qui. Poi, ma molto più avanti, gli sarebbe piaciuto sublimare e Tonino Guerra diveniva perfetto» («L’Unità», 22 marzo 2012, p. 39).

5 «La Stampa», 24 giugno 1973, p. 3.

6 Le parole di Titta Benzi nell’articolo sono tratte da interviste e colloqui inediti con Amedeus (Amedeo Montemaggi così chiamato da Titta stesso per la sua laurea in lettere classiche) da maggio a dicembre 1973 (archivio Montemaggi). Si veda anche L.Benzi, Patachedi: Amarcord di un avvocato di provincia all’insegna della grande amicizia con Federico Fellini, Guaraldi, Rimini, 1995.

7 Titta Benzi si riferisce al rifiuto di rappresentare nella pellicola il proprio padre (nella realtà Ferruccio, nel film Aurelio): «Senti, Grosso, — mi ha detto Federico —. Recita con me. Se vuoi sono disposto a cambiare anche il nome Titta. Ma vieni a Roma. Ti darò la parte di tuo padre Ferruccio. Ho provato Nereo Rocco, ma non andava. Vieni tu, a interpretare tuo padre. La tua faccia diventerà la più famosa del mondo. Che cosa te ne stai a fare a Rimini? Perché perdi il tempo a difendere quattro ladri di galline? Che soddisfazioni hai, anche se ti sei fatto una villa sul Covignano?». — E lei avvocato? — Gli ho risposto: no, Federico. Ti conosco troppo bene e non mi freghi. Al massimo doppiare la voce di mio padre». («La Stampa», 10 giugno 1973, p. 7). Di questo rifiuto Titta si pentì poi quando vide il film in anteprima al Quirinale alla presenza del presidente Leone e della moglie.

8 «La Stampa», 10 giugno 1973, p. 3.

9 Fellini disse a Titta: «Se non vuoi ci metto un altro nome! Gli altri sono pataca, sarebbero capaci di arrabbiarsi: tu no». In realtà Fellini pensava di intitolare alcune strade e rioni agli amici.

10 «Nuovo Cinema», n.2/1953.

11 «La Stampa», 10 giugno 1973, p. 7.

Ariminum, novembre e dicembre 2020