Quando agli inizi del 1973 circolarono le prime voci che Federico Fellini intendeva dirigere il prossimo film pellicola sulla sua città natale, la notizia scoppiò come una bomba negli ambienti giornalistici.
Come è noto Rimini, non citata apertamente nelle pellicole precedenti era stata comunque presente in varie forme, a volte manifeste, a volte più criptiche: si pensi ad esempio in Otto e mezzo alla tomba del padre nel cimitero, disegnata dall’architetto Mario Ravegnani Morosini.
La redazione del Carlino fu quindi coinvolta e a mano a mano che trapelavano ulteriori elementi, si approfondivano le indagini per capire quale fosse la reale trama e quali fossero i personaggi rappresentati: si potevano formulare anche ipotesi sulla base del noto libro “La mia Rimini” che nel 1967 era stato pubblicato con molte notazioni personali di Fellini sulla sua città natale.
Il primo articolo che affrontava il mistero del film uscì nell’aprile 1973 ed era relativo alla vera figura di Gradisca: l’interesse, già elevato, divenne allora sempre più intenso e profondo; il fotografo ufficiale del Carlino e della famiglia Fellini, Davide Minghini, andò a Roma e addirittura un “collaboratore” non ufficiale ma campione di diverse battaglie condotte sul giornale, Umberto Bartolani, prese parte al film, rivestendo il ruolo del nuovo podestà di Rimini che assume l’incarico correndo. Bartolani, nato il 1° gennaio del 1901, mi confidò che Fellini aveva voluto ripetere la scena più volte, mettendolo a dura prova.
Il capo pagina in quel periodo era Amedeo Montemaggi, esperto conoscitore di cinema, amico di lunga data di Luigi “Titta” Benzi, con il quale aveva addirittura fondato nel dopoguerra un circolo del cinema che aveva avuto l’ardire di arruolare come socio onorario Tyrone Power, in trasferta in riviera per recitare nel film “Il Principe delle Volpi”.
Amedeo ebbe con “Titta” lunghe conversazioni, trascritte e conservate nel suo archivio; sulla base della conoscenza comune di alcuni personaggi, della vita di Rimini dell’epoca e di aneddoti della vita di Fellini che Benzi sapeva, si provò a raffigurare il mondo rappresentato dal regista.
Fu tentata anche una ricostruzione dei luoghi in cui si svolgevano i fatti, abbozzando una sorta di mappa cittadina che indicava il percorso di un paese raccolto attorno alla sua strada principale e riprodotto fantasiosamente a Cinecittà: da piazza Tre Martiri (Giulio Cesare al tempo del film) per il corso d’Augusto fino a Piazza Cavour, fin oltre al cinema Fulgor: “un tratto di qualche centinaio di metri che viene compiuto, la sera, dai giovani, a passo di lumaca.”
Benzi spiegò che l’idea di Amarcord (battezzato inizialmente Il Borgo anche se, secondo “Titta”, Fellini aveva già in animo di chiamarlo con il suo nome definitivo), nacque da una loro discussione dopo la visione del film Roma: “Vedi Federico, sei un cannone nella parte bozzettistica, con i tuoi personaggi così umani, così coloriti, umoristici che parlano al cuore di ogni uomo. Quelle tue creazioni intellettualistiche, invece, andranno bene per gli intellettuali, ma la gente, l’umanità, non le comprende. ‘E’ vero’ mi ha risposto ‘è tanto che voglio fare un film solo di bozzetti’”.
In realtà poi Amarcord, un capolavoro assoluto della cinematografia mondiale, non può essere certo definito un film solo di bozzetti ed infatti Benzi, con grande acume, osserverà poi, durante le stesse conversazioni: “La vita di noi è alla base: Rimini, con le sue case, i suoi monumenti, i suoi personaggi è la cornice. E’ una Rimini scomparsa, ma è una Rimini che vivrà in eterno”.
Ma quella Rimini, che si dice scomparsa, è mai esistita? E’ esistito il passato o è solo il ricordo che ci rappresenta una realtà mai esistita? La domanda non è banale perché lo stesso Fellini affermerà, proprio nello stesso periodo: “Farò un film comico e straziante, indirettamente un ritratto della società italiana. Che cos’è il Borgo se non il riassunto dell’Italia più povera e arretrata? La cittadina che ho inventato rappresenta l’eterna provincia dell’anima, un luogo dove la mancanza di cultura è il legame dei difetti collettivi. I provinciali credono nell’autorità e la cercano; desiderano una figura protettiva, il padre, la chiesa, il partito, il ministro. I provinciali non crescono mai, la loro ambizione è di restare infantili: questo atteggiamento ha certo il suo fascino ed è difficile abbandonarlo. A ragione ho detto che il film sarà insieme ridicolo e struggente”.
Questo atteggiamento distaccato (Fellini arriverà a dire ironicamente “In realtà io sono nato in Val d’Aosta”, forse perché qualche giorno prima si erano tenute le elezioni in quella regione) è chiaramente spiegato da “Titta” come una sorta di amore non corrisposto: “i riminesi non hanno per Federico quell’amore che dovrebbero avere. Perchè i riminesi sono gente strana: a Federico lo snobbano, perché sono persuasi che debba sempre parlare di Rimini apertamente, come se fosse dovere di ogni riminese parlare sempre della sua città, dovunque si trovi. Ed il paradosso è appunto questo: che Federico parla sempre di Rimini e loro magari non se ne accorgono e credono che lui invece sia freddo, estraneo”.
In effetti Federico amava la sua città, anche per gli affetti familiari che qui conservava, e lo stesso legame con “Titta” era indice di un sentimento pervicace che lo teneva legato al mondo della sua adolescenza. Ma era un amore del tutto speciale: Benzi racconta che a volte Federico tornava da Roma e lo chiamava per girare nella notte fra le viuzze della vecchia Rimini, verso la marina “d’inverno, però, quando non c’è gente. Mai d’estate […] Ma la cosa di Rimini che più è cara al cuore di Federico è… il cinema Fulgor, l’unico cinema di Rimini rimasto com’era 30 anni fa, 60, 70 anni fa. Ogni volta che Federico ritorna a Rimini dobbiamo fare, sempre, un passeggino sul corso, fino al Fulgor”.
Un estratto di queste meditazioni apparve nel giugno del 1973 su “La Stampa” dove scriveva la moglie di Amedeo, Edda; Benzi, con orgoglio rivendicò come la propria famiglia avesse ispirato il regista. La pubblicazione degli articoli suscitò però il risentimento di Fellini che volle essere intervistato dallo stesso giornale qualche giorno dopo per replicare ad alcuni particolari della pellicola che “Titta” aveva svelato.
Il regista rispose in modo da una parte adirato, dall’altra ironico, ma di fatto rivelando anche lo spirito che lo aveva condotto a dirigere Amarcord: oltre alle già citate considerazioni, aggiunse: “Un film è come un viaggio. Può nascere programmato, ma i luoghi li scopri solo durante il cammino. Io preparo un film nella più completa confusione, allineo materiali eterogenei, ho brividi di febbre come prima di una malattia. Ad un certo punto so che devo cominciare, anche se non c’è nulla di pronto. In Otto e mezzo ho fatto una confessione sincera: incontro i miei personaggi all’ultimo minuto […] Il borgo di Amarcord non è Rimini, io sono romagnolo solo per caso e mi ritengo completamente romano. Mi pare d’essere diventato un oggetto turistico e mi ribello. La mia provincia è metafisica, può essere collocata in qualsiasi punto della carta geografica.”
Qui Fellini non ci dice tutto e nasconde che in fondo Amarcord è anche un inno all’amicizia, all’amicizia epica, resistente a tutto; un dono, quasi un ringraziamento, del più grande regista al suo più caro amico.
Un ulteriore esercizio fu quello anche di capire quanta parte avesse avuto Tonino Guerra nello sceneggiare il film: per “Titta”, dalla fantasia del santarcangiolese provenivano personaggi inventanti di sana pianta, come lo zio matto, o le parti più poetiche, ma anche certi atteggiamenti in cui i Benzi non si riconoscevano, come la nota scena della tovaglia: il vecchio Ferruccio (nel film Aurelio) padre di “Titta”, intervistato da Amedeo insieme a Luigi Pasquini riconobbe di aver tirato via la tovaglia ma assicurò di non aver mai pronunciato quelle parole, frutto sicuramente di un’invenzione di Guerra. Ma anche in tanti altri episodi si sente la mano del poeta.
Concludo con una notazione personale. Il film ironizza sulla storia (si pensi alla parodia dell’avvocato che narra la fondazione di Rimini) ed anzi è proprio antistorico nella sua ciclicità: l’eterno avvicendamento delle stagioni ma anche dei film: nell’evolvere della vita del regista I Vitelloni è seguito da Roma, con Amarcord che risale a prima dei Vitelloni, in una sorta di palingenesi eliotiana, “nella mia fine è il mio principio”. Qualche perla molto simpatica rende però la pellicola una fonte di ipotesi di datazioni, tutte più o meno opinabili: l’età degli studenti, il nevone, le Mille Miglia, il podestà. Vorrei ricordare il gustoso siparietto nell’episodio di Gradisca condotta in auto al Grand Hotel: un personaggio (Palloni?) le dice: “Il principe è bellissimo, se vedi che è contento, diglielo dei lavori sul lungomare, lui con una parola mette posto a tutto, sai”. Il lungomare, anche questo un tema sempre attuale.