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“Rimini oggi è diventata una città morta”. Con questa lapidaria affermazione, il Commissario Prefettizio Ugo Ughi comunicava ai propri superiori il 2 gennaio 1944, in una notissima relazione, le condizioni della nostra città dopo i terrificanti bombardamenti del 28 dicembre e dei due giorni successivi. 

Ughi, che definirà l’attacco “nettamente terroristico e di eccezionale intensità colpendo l’intera Città e la periferia con effetti spaventosi”, proseguiva descrivendo sinteticamente i danni che – più di ogni terremoto avvenuto – erano stati arrecati a tutti i servizi essenziali, alla quasi totalità delle strutture produttive (compresi i panifici), alle abitazioni dei cittadini rimasti sostanzialmente senza alcun riparo nella stagione peggiore dell’anno. Il bilancio, secondo Ughi doveva essere di almeno duecento vittime.

Una imponente forza aerea alleata, composta da 126 quadrimotori B24 “Liberator” e B17 “Fortezze volanti” della 15ª Air Force statunitense partiti dal Foggiano, scaricò su Rimini alle 11,30 del 28 dicembre 305 tonnellate di bombe; il 29 dicembre 25 B17 ne lasciarono cadere circa 75 tonnellate e così pure il giorno successivo.

E non era certo il primo bombardamento subito: già il 1 novembre una prima ondata di bombardieri, seguita da altre il 26 e il 27 dello stesso mese (il 97° gruppo nell’arco di un mese sganciò gli ordigni su Rimini ben tre volte), avevano fatto capire ai riminesi che la guerra non era finita e che l’Italia era vinta e occupata; anzi quell’avventura, iniziata da Mussolini con tanta impreparazione, aggravata dalla incredibile leggerezza di coinvolgere pure l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, stava manifestando tutti i suoi peggiori effetti sulla popolazione civile stremata, affamata e martoriata.

Già molti erano “sfollati”, cioè si erano rifugiati nelle campagne circostanti, come la relazione del precedente Commissario Prefettizio Eugenio Bianchini scrisse nei primi giorni di novembre: “la popolazione della Città è in pieno esodo. Migliaia di persone sfollano: parte ha saturato le campagne di Rimini e i Comuni di Verucchio e Santarcangelo; la valle del Marecchia è pure satura; gli altri Comuni della Provincia fanno conoscere di non poter ricevere sfollati; Forlì li rifiuta, mentre i Comuni litoranei sono sotto la preoccupazione di una eventuale evacuazione almeno parziale.”

La spaventosa capacità industriale nordamericana stava distruggendo una città millenaria la cui fortuna era stata di essere un crocevia e porta della Pianura Padana, fortuna che diventava disgrazia, perché proprio la sua posizione strategica la condannava alle attenzioni dei generali statunitensi. 

A ciò si aggiunga che nel periodo invernale i piani delle operazioni alleate prevedevano che, in caso di maltempo nelle destinazioni del nord Italia, gli aerei si alleggerissero del loro carico proprio su Rimini. E così avvenne il 28 dicembre, giornata di cielo sereno ma purtroppo solo a Rimini: non a Verona o a Vicenza, i due obiettivi iniziali, dove invece la nebbia impediva la visibilità; perciò gli aerei che dovevano colpire le due città venete si riunirono per accanirsi sulla nostra.

Lo scopo della guerra aerea era di ostacolare le comunicazioni con l’esercito tedesco che combatteva nell’Italia centro meridionale, ma probabilmente c’era anche l’effetto che i bombardamenti a tappeto arrecavano sul morale alla popolazione. Infatti, come già messo in luce dal generale Heinrich Von Vietinghoff-Scheel, i tedeschi perdevano anche la guerra psicologica: non riuscivano a indirizzare l’odio verso chi sganciava bombe, anzi alcuni cittadini ne approfittavano per assaltare proprio militari germanici, come il comando di viale Principe Amedeo. I riminesi, delusi dalla dittatura, stanchi delle requisizioni e dei soprusi delle truppe che consideravano occupanti, attendevano l’arrivo degli Alleati che finalmente avrebbero ridato pace, democrazia e speranza alla città. Don Serafino Tamagnini nelle campagne di Coriano rilevò tra gli sfollati un sempre crescente odio verso “i fascisti, causa di tutti i guai d’Italia”.

Ma intanto le bombe cadevano, ed erano micidiali. L’effetto deflagrante era preannunciato da sinistri sibili che essi stessi provocavano panico. I rifugi predisposti, spesso insufficienti e insicuri, costringevano le persone a rinchiudersi in claustrofobici locali dove si ammassavano donne, bambini, anziani che, augurandosi che nessun ordigno cadesse vicino, attendevano con ansia che le esplosioni terminassero. 

Amedeo Montemaggi, ex collaboratore del “Carlino”, raccontava che inizialmente non ci si rendeva nemmeno conto dell’arrivo dei bombardieri: ringraziò il futuro sindaco Ceccaroni che gli insegnò come reagire alle prime avvisaglie di un attacco. Perciò al suono delle sirene si sbracciò per avvertire le persone a lui vicine dell’imminente pericolo, poi corse ad un rifugio di fortuna in un orto prima che scoppiassero i primi ordigni. In quei momenti tremendi “la terra sussultava come durante un terremoto, tra le grida delle donne e dei bambini; noi cercavamo di fare coraggio ma il terrore si leggeva sul livido pallore dei nostri visi. Ad un tratto, durante la tregua prima dello sgancio di ulteriori bombe, ebbi l’idea di uscire dal rifugio per dare un’occhiata al di fuori, una formazione nemica puntava verso di noi, vidi i fusi neri delle bombe cadere verso il nostro rifugio, fra il sibilo assordante. Ricaddi all’interno, attendendo la morte. Il rombo dell’esplosione mi parve infernale, la terra tremò e il rifugio ebbe un sobbalzo. Le bombe, per fortuna nostra, erano cadute a 70 metri di distanza.”

Non così bene andò invece a chi si accalcò nei rifugi di san Bernardino e Cecchi, in via Montefeltro: le bombe li colpirono facendo strage dei poveri cittadini che speravano nel ricovero: morirono complessivamente 85 persone e gli strazianti racconti dei pochissimi sopravvissuti, forniscono un’immagine da inferno dantesco.

Con il bombardamento del 28 dicembre, la città perse per 75 anni il proprio teatro: bastarono due dei tanti ordigni sganciati per danneggiare irreparabilmente il gioiello polettiano. Come ricorda Augusto Campana: “la parte posteriore è stata centrata esattamente da una bomba che deve essere scoppiata prima di giungere a terra e ha aperto una enorme breccia nel muro posteriore dal tetto fino quasi a terra. La sala del Poletti si vede bene dalla piazza posteriore. Ritornando in seguito ho visto meglio che le bombe sono due: un’altra è caduta sulla sala al centro della curva del ferro di cavallo”. Il palazzo Lettimi, pure gravemente colpito, attende ancora la sua ricostruzione.  

L’attacco, nonostante l’assenza di contraerea e di aerei nemici, mancò quasi clamorosamente gli obiettivi principali, la stazione ferroviaria e i ponti: in compenso le bombe si sparpagliarono, a causa del forte vento, in gran parte del centro storico e della zona sud ovest disseminando maggiori distruzioni sugli edifici civili e tra la popolazione.

In realtà gli stessi americani considerarono l’azione un successo e la foto scattata da un bombardiere il 30 dicembre alle 14,00 acquistò una particolare celebrità: fu pubblicata nei periodici dei paesi alleati come esempio di precisione. Luigi Pasquini ne tradusse la didascalia: “Una perfetta visibilità da 24 mila piedi (7,200 metri) di altezza ha messo questo bombardiere in grado di sganciare le sue bombe proprio sulla stazione ferroviaria di Rimini, nell’Italia del Nord. Per avere un’idea della perfezione della mira che il puntatore calcolò per la traiettoria, puntate il vostro dito sul gruppo di bombe in direzione della traiettoria di volo… Questo attacco di dicembre causò delle esplosioni, suscitò un certo numero di grandi incendi e lasciò la stazione e molto materiale rotabile fuori servizio per il nemico”.

Ughi elencò i danni subiti dagli edifici per la “perfezione” dell’attacco: : “Semidistrutto è il Municipio edificio monumentale del ‘400, semidistrutto il teatro comunale […] gravemente lesionato quel gioiello artistico che è la chiesa di Sant’Agostino, lesionati il portale del Tempio Malatestiano [gravemente colpito  dal successivo bombardamenti del 29 gennaio 1944], la chiesa di San Girolamo, il tempietto di Sant’Antonio, colpita la chiesa di San Bernardino con annesso convento, lesionato l’edificio della storica torre di piazza Giulio Cesare [attuale piazza Tre Martiri]” distrutto il ricovero delle vecchie abbandonate […] colpita la Rocca Malatestiana, […] distrutto l’artistico Palazzo Lettimi”, gravemente colpite  tutte le principali scuole, le banche, edifici pubblici anche a favore della popolazione, i ricoveri degli anziani. Le bombe cadute sul Vescovado solo per un puro caso non provocarono la morte del vescovo Vincenzo Scozzoli e del vescovo ausiliario Luigi Santa.

Ma non era finita: con gennaio ancora bombe, bombe, bombe martoriarono una Rimini già prostrata e, con il conseguente sfollamento, divenuta una città fantasma.