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Oreste Delucca, con la sua ultima opera, “Rimini e il mare” (Luisè editore) compie la non facile impresa di pubblicare nell’arco di un anno un nuovo eccellente libro, replicando il successo di “Toponomastica riminese.

L’argomento sembra ampiamente sfruttato ma nessun testo riesce come questo a dipingere un affresco della società malatestiana al suo massimo splendore, in un aspetto per la verità raramente sondato.

Che Delucca sia uno dei massimi storici cittadini è ampiamente noto e riconosciuto anche dal Sigismondo d’oro che gli è stato assegnato. La giusta e meritata fama è poi suffragata dal favore del pubblico: alla dotta ricerca l’autore coniuga una narrazione interessante e scorrevole, che rappresenta la storia come un racconto: anche il profano si orienta perfettamente scorrendo le numerosissime e pregevoli illustrazioni, sempre pertinenti e ben collegate con il testo. Il ricco apparato di note al termine del libro non appesantisce la lettura ma le conferisce solidità scientifica.

Oreste parte, in modo semplice, dalle nostre radici: con poche pennellate e tante illustrazioni, ci spiega l’importanza delle vie d’acqua fin dagli albori e quindi la rilevanza di città che, come Rimini, univano la possibilità di fruire anche delle vie terrestri. Molto è cambiato ora: ma nel passato la navigazione, pur non essendo scevra da pericoli, era sicuramente una modalità di trasporto molto più sicura, rapida ed economica: una spedizione di vino dalla Grecia aveva un costo del 5% per il tragitto marittimo dalla città ellenica di provenienza a Venezia, del 12-15% da Venezia a Bologna per via fluviale, del 30% per il trasporto terrestre da Bologna a Imola!

Di qui quindi il monito di Delucca di abbandonare gli schemi consueti per immergersi nel medioevo dove l’autore, sicuro nocchiero, veleggia per aprirci un mondo, noto negli archivi che egli conosce a menadito, ma sconosciuto all’uomo di oggi.

Lo storico ci guida a rivelarci quanti fenomeni moderni sono in verità antichi: apprendiamo ad esempio che i movimenti migratori tra le due sponde dell’Adriatico erano assai rilevanti tanto che nel XV secolo ben 400 tra slavi e albanesi risiedevano a Rimini e costituivano la quasi totalità dei marinai; che l’Adriatico era il golfo di Venezia, un piccolo “mare nostrum” veneto che garantiva però sicurezza nei commerci, abbondanti, tra questa sponda e la Schiavonia, l’antica Croazia; che il porto di Rimini, allora come ora, necessitava di continua manutenzione. Ma ci narra anche che la città dalmata di Segna (Senj) era abitata da riminesi e c’era una sorta di gemellaggio con Ragusa (Dubrovnik), vera e proprio seconda patria per tanti; ci svela le battaglie su fiumi e laghi, le caratteristiche delle imbarcazioni nel Trecento e nel Quattrocento, la modalità di pesca e di commercio e le varie alleanze che venivano tessute per incrementare i traffici.

Un altro dei pregi di Delucca è la sua competenza in materia economica, che gli permette di trattare anche aspetti troppo spesso trascurati: apprendiamo per esempio che, oltre che grano, vino e olio da Rimini si esportavano il guado, apprezzata tintura azzurra, aglio e cipolle; ci informa che i Malatesta, compreso Sigismondo, non erano solo guerrieri ma anche imprenditori e commercianti.

Singolare è la ricerca del momento in cui nel nostro territorio si viene a conoscenza della scoperta dell’America: per primo il notaio Fantaguzzi di Cesena riporta, nel 1493, che il re del Portogallo aveva scoperto alcune nuove isole: notizia imprecisa (è vero che il Portogallo era la nazione con la maggiore abilità di navigazione, ma l’errore era comunque notevole), secondaria e marginale, quasi invisibile tra “descrizioni molto più corpose riservate alla donna che ha fatto le corna al marito”.

Il libro termina agli inizi del 1500, la conclusione di un’epoca: la fine della signoria dei Malatesta e lo sviluppo dei traffici con le Indie – rendendo marginale il mar Mediterraneo, fino allora il centro del mondo -causeranno la fine di una prosperità che aveva portato Rimini ai vertici anche culturali, con il Castel Sismondo ispirato da Brunelleschi e il Tempio Malatestiano dell’Alberti. La città diventa sempre più insignificante, “piccola appendice dello stato pontificio” che sopravvive a fatica ricordando l’antico splendore attraverso i monumenti che il glorioso passato aveva consegnato.