Autore di importanti opere eseguite nel nostro territorio
Prevalentemente scultore, tenacemente legato alle sue radici riminesi, operò dalla fine dell’ottocento fino al secondo conflitto mondiale
Il primo giorno di scuola non si dimentica e nemmeno la maestra che ti accoglie con un sorriso rasserenante quando, spaurito e confuso, incedi con timore in locali nuovi e grandi, affollati da tanti altri bambini. La mia maestra è stata Emilia Panzini la quale presto, quasi per rassicurarci che anche lei aveva avuto una famiglia, ci raccontò che suo padre Enrico era stato un grande scultore e aveva scolpito un importante monumento ai caduti che si trova tuttora all’ingresso di un paese dell’entroterra, Saludecio: nacque subitaneo in me, di conseguenza, il desiderio di vedere questa insigne opera. Anno dopo anno la memoria persisteva ed insieme progrediva l’istinto di conoscere di più questo scultore, tuttavia più passava il tempo e più constatavo che le opere di Enrico Panzini erano tante e di valore ma che di lui si era scritto poco e quel poco era difficile da rintracciare per l’uomo comune.
Enrico era un riminese puro, tenacemente legato alle sue radici: discendente di Gregorio Panzini che nel 1831 aveva fatto parte del governo provvisorio della città, era nato a Rimini il 17 gennaio 1876 dal prof. Romeo Panzini (pittore) e da Geltrude Ricci; a 8 anni rimase orfano di madre. Studiò nel collegio – convitto Dante di Casalmaggiore e all’Accademia di belle arti di Bologna, dove fu allievo dello scultore Enrico Barbieri. Diplomatosi, andò a Parigi dove fu molto apprezzato e dove avrebbe potuto conseguire onori e ricchezza ma, vinto dalla nostalgia della sua terra, tornò a Rimini e riprese la sua operosità nello studio in via Soardi. In un ritaglio di giornale, certamente degli anni Trenta, l’autore “G.L.R.” descrive l’atelier dell’artista: «le sue opere numerose, [sono] accatastate alla rinfusa nel suo simpatico e suggestivo studio dove alla bellezza estetica di numerose opere, è unito quel particolare disordine che è quasi il segno distintivo di tutti coloro che fanno dell’arte e vivono ed operano per essa […] È un ripostiglio dovizioso, e se ci si attarda con lo sguardo sui quattro angoli delle pareti di questa stanza luminosa, decine e decine sono gli esemplari dei suoi studi, dei suoi gessi, dei suoi marmi, dei suoi bronzi fra ι quali emergono cose che colpiscono per la loro vigorosa espressione».
Fu un periodo felice artisticamente, in quella corrente definita verista: eseguì nel 1898 una celebre grande testa di Garibaldi di cui era orgogliosamente e giustamente fiero, opera che venne donata dopo la morte dello scultore dalla vedova e dalla figlia ai musei comunali; compose poi, nel 1912, anche la testa di Giovanni Venerucci.
Le sue capacità furono apprezzate in tutta Italia: partecipò a numerose esposizioni, con esito sempre felice vincendo i primi premi e medaglie d’oro: alla Terza esposizione campionaria nazionale di Perugia (1904), con Voluttà e Maria; alla Prima grande esposizione campionaria internazionale di Napoli (1904-1905) e alla Quarta esposizione campionaria internazionale di Perugia (1907), con Puritas; nel 1909 l’artista riminese vinse una medaglia d’argento alla Prima Esposizione Nazionale di Belle Arti e Mostra Nazionale delle Ceramiche che si tenne al Grand Hotel, appena inaugurato.
Fu però nel primo dopoguerra che rifulsero maggiormente le capacità di Panzini, che divenne maestro nella esecuzione di opere scultoree che ricordavano i soldati morti durante la Grande Guerra. La vittoria del 4 novembre 1918 aveva infatti originato in tutta la penisola un culto dei caduti che ricompensasse onorificamente i tanti sacrificatisi in guerra: i circa 700.000 morti rappresentavano il 12% dei chiamati alla leva e occorre ricordare che generalmente le famiglie non avevano nemmeno potuto celebrare le esequie dei propri cari persi. Erano sorte così quasi spontaneamente iniziative di commemorazione, iniziative che per la maggior parte partivano dalla gente comune, dalla cerchia dei parenti, amici e anche semplici conoscenti. Considerato però che molti dei defunti erano poveri contadini privi di mezzi, si sentì poi l’esigenza di realizzare un’opera che ricomprendesse tutti i caduti di una località, in modo che ciascun familiare potesse sentire come suo il monumento. La grande celebrazione del milite ignoto del 4 novembre 1921 divenne l’evento principe e simbolo di questa ideologia.
Panzini comprese esattamente questo sentire, tutto sommato popolare e inizialmente non retorico, ed elaborò una grande scultura per Saludecio: il sacrificio della vita poteva essere idealizzato nella gloria della vittoria conquistata; per questo quindi veniva raffigurato il guerriero, modello di ciascun caduto, che si protende verso il nemico con la bandiera, offrendosi in olocausto serenamente. I paesani ne furono subito conquistati e concorsero in gran numero a sottoscrivere le offerte per la esecuzione dell’imponente monumento che tuttora troneggia all’ingresso del paese.
L’opera, inaugurata il 24 agosto 1924 alla presenza di alcuni gerarchi, riscosse un grande favore, tanto che Panzini realizzò anche il monumento ai caduti di Montefiore, nonché uno per il 27° Fanteria, inaugurato nella caserma Castelfidardo di Rimini e successivamente trasportato a Ferrara.
Lo scultore eseguì parecchi restauri nella chiesa di San Giovanni Battista a Rimini, lesionati dopo il terremoto del 1916; nel 1922 realizzò la tomba della famiglia Nadiani a Santarcangelo; Pier Giorgio Pasini[i], in base ai dati dello stile, attribuisce a Panzini la targa bronzea del beato Ronconi già esistente sul muro dell’Ospizio del Santo a Saludecio.
In una piccola città di provincia di ventimila abitanti non era facile vivere per uno scultore ed egli dovette girovagare, soprattutto in Lazio e a Roma, per lavorare[ii]. Lo stesso articolo già citato ricorda la travagliata vita dell’artista: «[Panzini] ha in comune con tutti gli artisti concittadini un’esistenza vissuta con la più assoluta dedizione, piena di asprezze e di difficoltà superate e vinte con la gioia e col dolore.» A rallegrare la sua esistenza c’era la figlia: «La sua piccola Emilia lo rallegra con la sua presenza, richiama spesso le sue tenerissime attenzioni e lo sprona a perseverare indomito nella sua fatica per la quale ha speso gran parte della sua vita». Emilia, che divenne appunto maestra, nel dopoguerra sposò Guido Vernocchi da cui ebbe un figlio che volle chiamare come il padre, Enrico.
L’amministrazione pubblica riminese negli anni trenta lo gratificò con qualche committenza: erme bronzee di Ruggero Baldini e di Claudio Tintori nell’ex piazzale del Kursaal, una targa a Luigi Tonini per la scuola a lui dedicata e la risistemazione del sipario del Coghetti dell’attuale teatro “Galli”; il direttore della biblioteca Carlo Lucchesi lodò il restauro di numerosi quadri della pinacoteca. A San Mauro, Panzini creò una targa«raffigurante la mite sembianza del più gentile poeta di Romagna, Giovanni Pascoli, opera degna di grande riguardo, catalogabile certo fra le sue migliori».
Anche la borghesia cittadina apprezzò la sua opera: Matteini[iii] ci ricorda che fu incaricato di eseguire «l’effige del Redentore, che i coniugi Oreste e Anna Bartoli ricomposero nel 1930 nella chiesa di S. Croce» e il ritratto bronzeo della loro unigenita Fernanda morta prematuramente (1926); realizzò nel 1937 il medaglione della tomba di Antonio Benzi (nel 1913 aveva già eseguito quella di Sante Polazzi) e probabilmente la stessa famiglia consigliò ai Fellini l’esecuzione da parte di Panzini del busto di Federico giovane, tuttora conservato dagli eredi di Luigi Benzi[iv], busto assai pregevole per la raffinata tecnica ma anche per l’insolita posa che coglie una profetica pensierosità del futuro regista; compose inoltre la testa in bronzo di Don Bosco e disegnò il bozzetto per un suo monumento.
Purtroppo la guerra recise la vita di questo artista: il 26 giugno 1944, nel corso del bombardamento alleato a San Marino, Enrico, che ivi si era rifugiato proprio per sfuggire ai pericoli, perì sotto gli occhi dei parenti.
«Enrico Panzini ha mirato ad un destino incerto, ha inseguito dall’infanzia alla maturità una chimera che spesso s’era illuso d’aver raggiunto ma che è sempre sfuggita al possesso vero, perchè l’arte non può essere e non sarà mai che un eterno anelito di perfezione e di bellezza, in costante superamento». Il grande rammarico è che la città si è dimenticata di lui: nemmeno una via è dedicata a questo artista che pure per Rimini aveva rifulso. Chiunque ami l’arte non può che augurarsi che questo torto venga presto riparato.
[i] Piergiorgio Pasini, Il Ponte, 8 maggio 2015
[ii]Pier Giorgio Pasini e Mario Zuffa, L’ arte e il patrimonio artistico e archeologico, in AA.VV. Storia di Rimini. Dal 1800 ai nostri giorni, tomo III, Ghigi Editore, 1978, pag. 109
[iii] Nevio Matteini, Rimini negli ultimi due secoli, Rimini, Maggioli, 1977, pagg.
[iv] Si veda http://www.riminiduepuntozero.it/un-fellini-anzi-due-mai-visto/ in cui si ipotizzata la realizzazione dell’opera nel 1938
Ariminum, maggio giugno 2020