E’ successo ad ognuno di noi in questo periodo confrontare l’attuale emergenza con le condizioni della nostra città dopo la guerra: tutti abbiamo sotto gli occhi la realtà di una città prostrata economicamente, che affronta una minaccia invisibile. Settantacinque anni fa il nemico, ben più visibile, se n’era andato lasciando un centro urbano distrutto materialmente, con oltre l’80% degli edifici lesionati o distrutti. Una situazione di estrema prostrazione dove più nulla è al sicuro, talmente drammatica che persino il Luogotenente del Regno, il principe Umberto sente il dovere di venire a Rimini il 5 novembre 1944 e sarà immortalato mentre osserva le rovine del Tempio Malatestiano.
Qualche analogia con i nostri giorni: anche nell’ottobre 1944 Rimini è afflitta da un’epidemia, ma di tifo: secondo Luigi Silvestrini, primario dell’ospedale, ci sono stati 469 casi accertati e 38 morti. Anche all’epoca vige un divieto di circolazione e Giulio Cesare Mengozzi racconta a questo proposito: “Nonostante un preciso ordine del Town Mayor (il sindaco, o meglio il Governatore inglese della città) che inibisce, pena l’arresto, ai civili il rientro in città [molti riminesi furono detenuti e processati: l’usuale condanna per questo reato erano quindici giorni di lavori forzati nell’Umbria] per le spaventose condizioni di essa, la popolazione continua sempre più numerosa ad affluirvi […] I mesi invernali offrirono ancora privazioni e disagi, mentre i viveri scarseggiavano, il combustibile difettava, le risorse finanziarie si assottigliavano ed i prezzi salivano vertiginosamente”.
L’AMG (Allied Military Government), nella persona del tenente americano Peter Natale, affida l’amministrazione pubblica, provvisoriamente dal 21 settembre 1944 fino al 7 ottobre 1944, ad Arnaldo Zangheri, padre dello storico e politico comunista Renato; successivamente viene insediata dal CLN una giunta comunale di 10 membri provenienti da tutti i partiti antifascisti, giunta che elegge come sindaco il socialista Arturo Clari, l’ultimo in carica prima dell’avvento del fascismo.
Il compito della giunta è quello di provvedere al meglio alle esigenze della cittadinanza raccordandosi con i veri detentori del potere e cioè gli Alleati, ma anche progettare la ricostruzione per rendere Rimini più grande e più bella: sul primo aggettivo tutti concordano ma sul secondo le perplessità sono notevoli.
I riminesi reagiscono da par loro: senza commiserazione, si sentono artefici di un nuovo futuro e cominciano, con la loro intraprendenza, a ricostituire i fondamenti della vita civile. Dalle cronache si legge: “Intanto si riaprono i primi negozi, compaiono i primi autoveicoli civili, le vie cittadine rivelano una certa animazione. Si vedono anche le uniformi verde·bottiglia dei soldati italiani del 157° Italian Pioneer Labour Company [agli ordini delle forze sudafricane comandate dal capitano Kent]. Molti riminesi lavorano con le truppe inglesi: si fa di tutto per vivere, dall’interprete al carpentiere, dallo scaricatore al benzinaio (un petroil point sorgeva sulla destra del porto, ove i tedeschi avevano distrutto lo storico oratorio di S. Antonio e le case adiacenti per sgomberare un posto per le loro batterie), dall’impiegato al cuoco, allo sguattero, al fabbro, all’elettricista, all’idraulico, ecc. anche se questi mestieri è la prima volta che si tentano. Nelle case entrano i soldati alleati di presidio, accolti con migliore o, peggiore buonagrazia, a seconda delle scatolette che portano in omaggio ai padroni di casa, ridotti in estrema mancanza di tutto.”
Come affrontare allora la stagione estiva 1945, la prima finalmente in pace? La situazione è disastrosa: i tedeschi, per esigenze belliche (temevano uno sbarco sulle spiagge) avevano demolito ville ed alberghi che erano scampati ai bombardamenti; il lungomare, i parchi e i giardini devastati, i ponti interrotti e il porto in condizioni disastrose; la spiaggia squallida, ricoperta da sterpi, alghe e da ogni sorta di detriti, ivi compresi gli ostacoli anticarro; le poche abitazioni rimaste, compresi gli alberghi, occupate dalle truppe alleate. Ma, racconta Luigi Silvestrini: “Eppure il desiderio di godere il conforto del soggiorno marino ed il refrigerio del bagno, per il caldo dominante e persistente (anche la siccità, quale da molti anni non si era verificata, si aggiunse ad aggravare le condizioni alimentari della cittadinanza), indusse diversi cittadini e qualche forestiero affezionato a frequentare la spiaggia. Diversi capanni, alcuni ombrelloni, gli immancabili mosconi, qualche vela da diporto, una certa spensieratezza… ed alla sera alcuni ritrovi mondani, e perfino una modesta stagione d’opera al teatro Novelli, fortunatamente scampato alla furia devastatrice, incoraggiati dalle truppe alleate”.
E la scuola? Chiusura forzata e niente didattica a distanza. Nel marzo 1945 gli alleati si preoccupano di ricostituire un embrione dell’organizzazione necessaria. Luigi Pasquini ricorda: “L’ufficiale dell’esercito inglese addetto alla riorganizzazione dei servizi scolastici dell’Italia liberata chiama a raccolta gli insegnanti allo scopo di dare una prima, rudimentale base alla scuola, il cui organismo è totalmente sfasciato. Sono molti i professori assenti: i più trattenuti nei luoghi di sfollamento altri scomparsi. Elenchi alla mano, l’ufficiale britanno riunisce i superstiti, nomina i capi d’istituto e dispone gli orari delle lezioni in improvvisate aule di alcuni edifici di fortuna.” Naturalmente la burocrazia s’impone subito: il primo compito assegnato ai docenti sarà quello di compilare una scheda personale. Niente di nuovo sotto il sole, dice l’Ecclesiaste.