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“Regio Residente di Governo” in Etiopia, di ritorno a Rimini, “i suoi occhi vedevano solo le ampie distese etiopiche, le boscaglie e gli Oromo”

Nella mia infanzia ho vissuto gran parte del mio tempo in un luogo speciale, dove i miei genitori lavoravano ma nello stesso tempo erano in contatto con un’umanità variegatissima che suscitava la mia curiosità: la redazione riminese de “Il Resto del Carlino”.

Questa vita da una parte era scandita sempre dagli stessi ritmi e dagli stessi orari, dall’altra era svolta nel tempio della novità, della notizia: chi voleva sapere “l’ultima” si affacciava frequentemente nelle due stanze di Piazza Cavour.

C’era però una persona particolare, che aveva un rango e un’attenzione esclusiva, e che per questo mi suscitava molto interesse, anche perchè mio padre Amedeo la trattava sempre con rispetto e considerazione, come un fratello maggiore.

Si trattava di Carlo Granaroli, giornalista corrispondente de “L’Avvenire d’Italia”, probabilmente dimenticato da tanti ma con una vita davvero singolare.

Nato nel 1904, Granaroli si era stabilito presto a Rimini dove aveva raggiunto un’invidiabile posizione: professore di ragioneria presso l’Istituto Tecnico “Valturio”, era diventato corrispondente da Rimini di vari quotidiani e periodici e capo ufficio stampa dell’Azienda di Soggiorno.

Nel dicembre 1936 però la sua vita subì una svolta: fu nominato “Regio Residente di Governo” in Africa Orientale Italiana, l’Etiopia da poco conquistata ma ancora ben lungi dall’essere pacificata.

Il ministro delle Colonie1 Alessandro Lessona aveva dovuto letteralmente inventarsi la forma di amministrazione di questo immenso territorio, vasto cinque volte l’Italia e con dodici milioni di abitanti, e aveva costituito un sistema suddiviso in governi, commissariati e residenze.

Il governo dei Galla – Sidama (nome per la verità dispregiativo perchè il termine “Galla” ricordava la condizione servile degli Oromo nei confronti dell’etnia dominante Amhara) comprendeva la parte sud del paese a confine con il Sudan e il Kenya ed era appunto abitato prevalentemente dagli Oromo che avevano una tradizione e una lingua del tutto differente con quelle parlate ad Addis Abeba (ancora oggi i due idiomi più diffusi, in misura paritetica, sono l’Amarico e l’Oromo).

Granaroli, che era stato arruolato, divenne Residente di Governo di Dembidollo, e Vicecommissario della regione dell’Uollega, un ruolo di particolare rilevanza in una regione di frontiera non ancora pacificata. I confini erano infatti molto labili: nel Kenya e nel Sudan avevano trovato rifugio i ribelli sconfitti dall’esercito italiano pronti a riprendere l’offensiva alla prima occasione e comunque restavano predoni in continua attività.

Granaroli in Africa

La conquista dell’Etiopia aveva originato molti problemi da risolvere, primo fra tutti quello del rapporto tra colonizzatori e colonizzati, che incentivò fra l’altro in Mussolini la psicosi razzista: pertanto era necessario un approccio nuovo nei confronti dell’immenso territorio ora dominato.

Il ministro Lessona aveva affidato ai Residenti di Governo un incarico delicato, che era quello di far accettare il dominio coloniale italiano facendo leva sulla tradizionale ostilità delle varie etnie etiopiche soprattutto nei confronti dei feudatari. Perciò aveva lasciato all’Esercito le funzioni militari e riunito nel Residente quelle civili che dovevano prevalere (anche se spesso, come nel caso di Granaroli, il Residente era egli stesso un ufficiale): sindaco, giudice, funzionario del fisco (ruolo cruciale in quanto solo il pagamento dell’imposta fondiaria dava titolo alle proprietà), ufficiale di Stato Civile, ma anche comandante delle forze di polizia, molto spesso composta da locali. Coerentemente con la logica autoritaria del regime, si riassumeva in un’unica persona un potere enorme che poteva anche essere però fonte di abusi, in un territorio ancora infido.

Lino Calabrò, futuro ambasciatore che fu Residente in una zona limitrofa, scrisse della sua esperienza: “Vivere in Africa, isolato in una zona dell’interno, governare popolazioni aventi tradizioni, usi, costumi e religioni che nulla avevano in comune con il mondo europeo, costituiva un’esperienza unica ed affascinante, anche se importava sacrifici, responsabilità e, talvolta, rischi non lievi. Conoscere e comprendere quella realtà tanto lontana e diversa era indispensabile per realizzare quelle finalità di giustizia, di benessere e di civiltà che erano nei nostri programmi e di cui quelle genti sentivano vivissimo il bisogno… Si era perciò sempre responsabili delle proprie azioni, del proprio comportamento, delle proprie decisioni. Un errore trovava sempre la sua sanzione, immediata o ritardata, e poteva provocare conseguenze assai gravi per chi lo commetteva e per le sue ripercussioni di carattere generale. L’autorità era, insomma, strettamente connessa alle qualità personali di chi era chiamato ad esercitarla”.

Qui veniva allora in soccorso la capacità del singolo di diventare autorevole, e Granaroli ci riuscì brillantemente, instaurando con le popolazioni sottoposte alla sua giurisdizione un rapporto estremamente cordiale. Forse la sua formazione di insegnante lo aveva indirizzato verso la comprensione e lo studio delle popolazioni soggette e ben presto volle imparare la lingua Oromo, che padroneggiò con grande sicurezza.

Lo scoppio della guerra mondiale interruppe la placida armonia in cui egli si trovava, e lo portò a diventare Residente in una regione ancora più vicina al confine con gli Inglesi in Kenya.

Non è l’occasione per ripercorrere gli innumerevoli errori commessi dai vertici militari italiani durante il conflitto: Churchill stesso scrisse: “Nessuno che abbia passato le montagne da Giggiga a Dire Daua per la esigua stretta e sopra le gole piene di alberi lungo la strada italiana, magnificamente costruita, che attraversa le cento miglia di questa zona montagnosa, selvaggia e bella, nessuno può comprendere come gli uomini che crearono un tale capolavoro d’ingegneria possano averlo abbandonato in meno di dieci giorni di combattimento… La via corre attraverso diverse posizioni che sembrano del tutto imprendibili, dove la possibilità di movimenti laterali o di aggiramenti è del tutto fuori questione, dove ognuno avrebbe detto che un manipolo di disperati avrebbe potuto trattenere un esercito per intere settimane”.

Tuttavia è indubbio che molti soldati combatterono un’aspra, dura e crudele guerra, dove il prigioniero spesso era soggetto a sevizie che gli inglesi tentarono di arginare promettendo premi in denari per i combattenti consegnati vivi.

Gli eventi bellici fecero nuovamente assumere a Granaroli un ruolo da capo militare: combattè duramente nell’aprile 1941 a Giarso resistendo a lungo; quando poi con la resa delle forze italiane nel giugno 1941 fu rinchiuso a Dire Daua, non si rassegnò e nel settembre 1941 evase.

Fu ricatturato ad Addis Abeba due mesi dopo ma poi fuggì di nuovo: da quel momento la sua vicenda, una guerriglia continua e fastidiosa, ricordò l’epopea di Lawrence d’Arabia o di von Lettow-Vorbeck in Tanganica.

Infatti nel marzo 1942 raggiunse lo Uollega, la vecchia regione da lui amministrata, e qui organizzò un gruppo di resistenza di Oromo contro il governo inglese che aveva ridato tutto il potere agli Amhara: confidava nella vittoria dell’Asse in Libia che avrebbe portato alla liberazione del Nordafrica e – sperava – anche di quella regione a confine del Sudan.

Nel novembre 1942 fu nuovamente catturato dagli Etiopici e temette di essere giustiziato ma, fortunatamente, un capo da lui aiutato nel periodo della Residenza intercesse per lui e, grazie a ciò, fu inviato ad Addis Abeba.

Anche questa volta l’irriducibile Granaroli evase e dal gennaio 1943 all’ottobre 1944, condusse una continua guerriglia protetto dagli amici Oromo riuscendo sempre a sfuggire alla cattura, finchè terminò la sua libertà e nell’agosto 1946 egli fu rimpatriato per riprendere la vita che aveva lasciato dieci anni prima.

Una vita però che era stata irrimediabilmente segnata dall’esperienza etiopica: Granaroli aveva contratto quella inguaribile malattia che si chiama “Mal d’Africa”, un amore sconfinato per un mondo nel quale l’uomo può riscoprire e ritrovare se stesso, la sua libertà, la sua individualità, affascinato dagli spazi, dalle genti, dagli animali, dalle foreste e dai deserti, dai fiumi e dai laghi, da una vita semplice, riportata ai suoi valori essenziali.

Mio padre, che conobbe Granaroli negli anni Cinquanta, mi diceva che i suoi racconti erano inevitabilmente velati di nostalgia: “i suoi occhi vedevano solo le ampie distese etiopiche, le boscaglie, gli Oromo”.

Quando lo vedevo entrare in redazione per raccogliere le notizie che avrebbe poi trasmesso al suo giornale, provavo un istintivo affetto ma non immaginavo quale storia avesse vissuto: intuivo solo dal rispetto che mio padre gli mostrava e dall’aiuto che gli forniva, che era un uomo diverso da tutti gli altri.

Granaroli ricambiava l’affetto che gli tributavo e in occasione del suo ritiro dalla professione mi volle regalare un’enciclopedia che conservo tuttora gelosamente nel soggiorno di casa mia.

Ma aveva un’ultima sorpresa per tutti noi: la perfetta conoscenza della lingua Oromo unito alla passione mai doma per la cultura, lo aveva spinto a diventare un glottologo e la sera per lui era il tempo dello studio solitario. Era perciò entrato nei misteri di lingue antiche e sconosciute, come il basco antico, l’etrusco e persino il sumero, trovandovi affascinanti e sconcertanti legami linguistici. Ne aveva dedotto che gli Oromo erano i discendenti di una razza di origine sumerica allontanata nel 2600 a.C. dall’invasione accadica e sparsa poi nel mediterraneo e nel Corno d’Africa: aveva perciò pubblicato nel 1975 un libretto denso di numerosissimi vocaboli e confronti, in cui esponeva le sue teorie che ci sbalordivano ed aveva il proposito di scriverne altri quattro in cui avrebbe dimostrato scientificamente ciò che stava teorizzando.

Purtroppo però la morte lo colse nel 1978 prima che la sua opera completa ci fosse nota.

Mio padre si augurava di vedere vagliate queste idee, ma ora quasi nessuno più si ricorda di Carlo Granaroli e dei suoi studi.

1Il Ministero delle Colonie si occupava dei possedimenti italiani in Africa, in quanto il Dodecaneso dipendeva dal Ministero degli Affari Esteri. Dopo la conquista dell’Etiopia, dall’8 aprile 1937 per dare maggiore risalto alla vocazione “imperiale” del regime, il dicastero si chiamò Ministero dell’Africa Italiana, alle cui dipendenze vi era il Vicerè. Dopo la disastrosa prova di Graziani al vertice dell’Etiopia, Lessona propose in questo ruolo il duca Amedeo d’Aosta, ma ciò causò la sua fine politica. Mussolini, mentre accettava la richiesta “dimise” Lessona dicendogli: “dovete lasciare il Ministero poichè, trattandosi di un Principe reale, è meglio che lo riassuma io”.