Il terribile evento che caratterizzò l’agosto di 80 anni fa
La condanna a morte avvenne non per attentati a soldati ma per aver posseduto armi e incendiato una trebbiatrice, impedendo il rifornimento alle truppe tedesche
Se ci fu un periodo spaventoso nella storia millenaria della nostra città, sicuramente si verificò ottanta anni fa. Quell’estate, che generalmente era sinonimo di vacanza e di spensieratezza, nel 1944 divenne invece dolore, morte, distruzione.
I bombardamenti avevano già trasformato Rimini in una città fantasma, con un massiccio sfollamento della popolazione urbana nelle campagne; pochi irriducibili vagavano come spettri tra le macerie.
Si avvicinava il fronte della guerra, e con esso gli eserciti: quello tedesco, determinato a resistere, aveva grande necessità di approvvigionarsi, visto che Hitler aveva ordinato che le forze in Italia dovevano trovare in loco i rifornimenti di cibo e inviarne altri in Germania”. L’estate era anche il tempo della mietitura e della trebbiatura: grano, farina, pane per nutrire gli occupanti, decisi come voleva il loro comandante Albert Kesselring, a far rispettare il loro dominio e a reprimere crudelmente chi protestava o chi si opponeva: tutti «banditen».
Ma gli Italiani aspettavano l’arrivo degli Alleati, i liberatori, e desideravano che giungessero prima possibile per sollevare finalmente il giogo della dittatura che da 22 anni opprimeva questo territorio e naturalmente per far finire quella guerra mai voluta dalla popolazione. Quale poteva essere perciò una valida forma di resistenza? Per molti la risposta era rendere difficile proprio la possibilità di alimentare la macchina da guerra tedesca. Perciò nelle campagne si manifestò una Resistenza nel sabotaggio alle richieste di cibo che venivano dal comando germanico. Antifascisti, molti senza nemmeno imbracciare le armi, giravano tra i contadini convincendoli a trebbiare di nascosto, con metodi antichi e antiquati ma salvando cosi il raccolto dalle requisizioni. Nello stesso tempo si diffondevano gli ideali di resistenza, libertà e democrazia, spesso congiunti al comunismo, in una sorta di propaganda verso un mondo migliore che sarebbe sicuramente uscito dalla sconfitta dei Tedeschi. Le conversazioni continue e il fatto che il grano restasse nelle mani dei coltivatori producevano un sentimento di speranza per il futuro e di vicinanza verso chi stava arrivando, mentre aumentava l’astio verso gli occupanti e il fascismo che aveva provocato la guerra e la miseria.
Questa forma di resistenza, destinata a forgiare coscienze più che militi, è meno nota forse perché non produceva atti eclatanti; era però altamente efficace nel creare una barriera sempre più forte tra il popolo e gli invasori germanici, e non pare adeguatamente valutata perché considerata, a torto, di tono minore.
Ma c’era chi non si accontentava di diffondere tali ideali verbalmente, ma riteneva che fosse giunto il momento di agire anche militarmente: erano forse i più coraggiosi, quelli che non temevano di affrontare pericoli nei combattimenti e la sicura morte in caso di cattura. Kesselring, adottando fedelmente le direttive del suo ammirato Führer a cui doveva la carriera militare, non riconosceva i partigiani come combattenti nemici ma come «banditen» a cui applicare la pena capitale; ciò rendeva così ancora più forte la spaccatura, la distanza e l’odio della popolazione nei confronti dei Tedeschi, come per altro ammise lo stesso comandante che gli succedette, generale Heinrich von Vietinghoff.
Mario Capelli (23 anni), Luigi Nicolò (22 anni) e Adelio Pagliarani (19 anni) erano tra coloro che univano l’entusiasmo verso un futuro migliore con l’esuberanza giovanile e il desiderio di azione. Perciò si arruolarono in un reparto della Resistenza, la 29a Brigata GAP «Gastone Sozzi»; peraltro Luigi Nicolò aveva già combattuto nelle file partigiane ed era riuscito a sfuggire a un rastrellamento.
I tre insieme ad altri decisero, come atto di resistenza, di bruciare una trebbiatrice, odiato simbolo delle prevaricazioni tedesche che requisivano gran parte del grano lavorato. Il colpo era riuscito ma non era sfuggito al tenente colonnello Karl Christiani – comandante del 303° reggimento turkmeno, reparto germanico che controllava Rimini – il quale, adirato, voleva a tutti costi punire i colpevoli che lo avevano sfidato.
Le vicende successive sono note1, anche se restano alcune parti non del tutto chiarite. Catturati, in base ad una delazione, da Tedeschi e fascisti comandati dal federale Paolo Tacchi, nella caserma di via Ducale, i tre partigiani furono trovati con armi e munizioni; trasferiti all’Osteria Pettini, all’epoca ampio locale sito in via Covignano ove si era stabilito il comando germanico, furono torturati a lungo – tanto che alla liberazione, oltre un mese dopo, nei ricordi di Angela Biondi Bagli, le pareti riportavano ancora il sangue delle sevizie – ma rifiutarono di parlare o di tradire i compagni. Portati poi al vicino Monastero delle Grazie dove trascorsero la loro ultima notte, scrissero da condannati a morte le lettere di addio ai familiari, testimonianze molto commoventi che meriterebbero di essere lette frequentemente.
Al mattino del 16 agosto i Tre ormai Martiri, con il cartello «banditen», furono impiccati nella pubblica piazza centrale, quella che era chiamata Giulio Cesare e che poi assunse la sua attuale denominazione in loro onore il 9 ottobre 1944: ne sono tragica testimonianza i racconti di Libero Angeli e Augusto Cavalli, le foto tedesche, quelle di Luigi Severi e il disegno di un caporale germanico, Herbert Agricola.
LA LETTERA DI ADDIO DI ADELIO PAGLIARANI
Rimini, 16 agosto 1944
Cara mamma.
L’ultimo piacere che io ti domando, non piangere tanto, la mia fine è arrivata ma sempre pieno di coraggio e di fede io muoio ma da uomo.
Mi sono confessato e il frate che viene ti dirà che io muoio sempre col pensiero più grosso per te.
Dunque fatti una decisione non piangere ne te e mio babbo, credo che mi farete questo favore, da voi perdonatemi, di quanto mi dicevi che dovevo sta te in casa, che non ti stavo ascoltare, ora mi è toccata a me e mi dovete promettere che non dovete piangere per me, è l’ultimo favore. Te Palin guarda di non fare arrabiare la mamma i genitori, io muoio e state ad ascoltare quello che dicono che è la verità, guarda di consolarla e che si aiuta che gli vinca. Gisto anche tu fagli consolazione alla mamma che quello che dice è la verità, io sono pentito che non l’ascoltavo, ma sono contento che muoio della mia idea.
Pepo ci vedremo all’altro mondo, saluta tutti i parenti e quelli che ti chiedono di me. Mamma mi sono confessato e muoio di coraggio e di fede.
Cari miei tutti l’ultimo favore che vi domando non piangete per me se potete e se vi fanno portatemi al cimitero di Vergiano.
Si vedremo all’altro mondo saluti da vostro figlio
Lino
Mamma, l’ultimo favore che ti domando non piangere, saluti a Maria un bacio.
Note
1 Si vedano ad esempio Amedeo Montemaggi, 16 agosto 1944: Tre Martiri, CID, Linea Gotica, ANPI, Comune di Rimini, 1994; L. Faenza Resistenza Rimini, Guaraldi, Rimini, 1995; M. Casadei, La Resistenza nel Riminese: una cronologìa ragionata, Istituto per la storia della Resistenza e dell’Italia contemporanea della provincia di Rimini, Rimini, 2005; A. Turchini, Per la libertà e la democrazia. Antifascismo e Resistenza a Rimini e nel Riminese (19431944), Il Ponte Vecchio, Cesena, 2015; D. Susini Vittime e carnefici. Le Stragi nazifasciste lungo la linea gotica orientale, Donzelli, Roma, 2024; https://bibliotecagambalunga.it/biblioteca-gambalunga/80deg-anniversario-della-liberazione-di-rimini/tre-martiri.