Nell’immaginario collettivo riminese, Pietro Palloni è sempre stato considerato il podestà per antonomasia della Rimini fascista. In «Amarcord» è possibile riconoscere Palloni in colui che accompagna Gradisca all’incontro con il Principe al Grand Hotel e che, nel percorso in automobile, esorta la fascinosa donna di parlare al regale rampollo di un’opera che stava molto a cuore al podestà: «se vedi che rimane contento, digli dei lavori sul lungomare […] il lungomare…». Il riferimento di Fellini è certamente umoristico considerato il motivo della «visita» di Gradisca, e non si può non pensare ad una garbata ironia verso Palloni.
Infatti proprio il lungomare, nella sua versione primitiva ante Parco del Mare, è sempre stato associato a questo illustre e ricco esponente della Rimini «bene» del tempo.
Pietro Palloni era un facoltoso ma abile uomo d’affari con vasti interessi in agricoltura e in edilizia, di origine marchigiana ma divenuto riminese d’adozione. Si era avvicinato al fascismo più tardi rispetto agli antemarcia, ma data la sua autorevolezza era stato accettato dai vertici nazionali, sebbene i litigiosi esponenti locali, soprattutto quelli più di “azione” non lo vedessero di buon occhio.
Era diventato podestà nel 1929, succedendo a Tullo Busignani, un colto agrario che aveva fondato la rivista “Ariminum” inviso però ai fascisti locali perchè non riminese ma di Cervia. Le lotte intestine nel fascismo locale non mancavano e spesso si trasferivano all’interno del partito e nel governo della città.
Il podestà era la figura che aveva sostituito il sindaco nel 1926 e aveva poteri molto più estesi, assorbendo anche quelli della giunta e del consiglio comunale: era in sostanza una riproposizione in chiave locale ed amministrativa, dell’uomo forte tanto in auge a Roma. Palloni era in effetti un capace amministratore in quanto era più che un politico un uomo d’affari, sapeva leggere i conti e farli quadrare. Ma non solo, e qui sta il motivo della sua fama duratura: aveva progetti grandiosi per trasformare la città, individuando nella sua romanità il punto chiave per rilanciarla. Secondo il suo pensiero, i due principali simboli dell’antichità, l’arco e il ponte, andavano isolati da tutte quelle superfetazioni che nel corso dei secoli li avevano soffocati, e magnificati proprio come il duce stava facendo a Roma. Inoltre a Palloni non dispiaceva gareggiare in qualche modo con Parigi: perché non creare una “etoile” anche a Rimini, con al centro però il primo arco celebrativo della storia anziché un “arc du triomphe” di parecchi secoli dopo? Così la Flaminia e il corso d’Augusto sarebbero stati i bracci principali ma lateralmente sarebbero partiti altri raggi, tra cui quello che avrebbe portato al nuovo stadio comunale. Erano progetti grandiosi ma Palloni, oltre che a risanare i bilanci, a volte elargiva di tasca propria il denaro necessario, tanto che si era diffuso in città il simpatico modo di dire “paga Palloni” per simboleggiare questa sua munificenza. Promosse molte altre opere tra anche la redazione di un piano regolatore, che fu poi approvato dal suo successore.
Naturalmente il podestà della città al di qua del Rubicone non poteva non celebrare Giulio Cesare e, sebbene l’idea non fosse sua, promosse la costruzione della statua che tanto ancora fa discutere.
Ma qui avvenne qualcosa di misterioso: all’inaugurazione del bronzo, che nel pensiero fascista doveva assimilare Mussolini a Giulio Cesare come fondatore dell’impero, il duce non si presentò. La propaganda faceva risalire addirittura al dittatore l’idea della statua stessa, era quindi logico che egli fosse a Rimini a celebrare l’evento. Neanche due mesi dopo, il 24 ottobre 1933 Palloni si dimise, sostituito immediatamente da Mattioli, ufficialmente per motivi di salute. Che tale motivo fosse assolutamente pretestuoso era evidente e Liliano Faenza ironicamente ha commentato: “il robusto cinquantasettenne avrebbe vissuto altri ventidue anni”.
Ipotesi più convincente appare invece quella avanzatami tempo addietro da Francesco Maria Pelliccioni, purtroppo scomparso diversi anni fa: suo padre era addetto ai tributi comunali e quindi in stretto contatto con Palloni, secondo cui quest’ultimo cadde in disgrazia perché amico del riminese Mario Ghinelli, potente segretario del fascio di Bologna nonché sodale di Leandro Arpinati, all’epoca “padrone” de “Il Resto del Carlino”, il quale aveva fatto sostituire il corrispondente da Rimini, Carlo Granaroli, perchè sgradito a Palloni. Nel maggio del 1933, Arpinati, all’epoca sottosegretario agli interni di Mussolini e quindi di fatto secondo più potente uomo di governo, era stato esautorato, dopo un aspro contrasto con Achille Starace (e Rachele Mussolini); il 31 ottobre 1933 il ras bolognese fu espulso dal partito e l’anno successivo inviato al confino. Tutti coloro che erano vicini ad Arpinati furono perseguitati e i più compromessi anche inviati al confino. Ad onor del vero, all’archivio di Stato Centrale di Roma si trova una lettera del prefetto di Forlì Borri che elencava gli amici di Arpinati, ma non vi è Palloni. Tuttavia, tenuto conto delle coincidenza dei tempi, si può ipotizzare che il podestà fosse diventato scomodo a causa dell’amicizia con Ghinelli; fu forse per questo che Mussolini non presenziò alla cerimonia della statua e sostituì poco dopo Palloni, senza però procurargli ulteriori conseguenze. Comunque il successore Mattioli non si discostò da progetti del suo predecessore ed anzi fece di tutto per portarli a termine, consolidando perciò la fama di Palloni.