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Qualche giorno fa si è appresa la notizia che finalmente la nostra città celebrerà Pietro e Marco Arpesella: spero si apra un confronto sul modo più adeguato per ricordare il loro contributo allo sviluppo di Rimini.

Giustamente questo giornale segnalava, tra le varie benemerenze di Pietro, il salvataggio di “tre generali inglesi”: il generale Philip Neame, l’Air Vice Marshal Owen Tudor Boyd e il generale Richard O’Connor (noto per aver sonoramente sconfitto in Africa la 10ª armata al comando di Rodolfo Graziani), tutti catturati ed evasi dopo l’8 settembre 1943 da un campo di prigionia in Toscana.

Il fatto è ampiamente noto, trattato anche su libri dedicati o nella memorialistica, oltre che ricordato dallo stesso Arpesella in più occasioni, ma mi sembra opportuno riportarlo all’attenzione dei lettori perché effettivamente fu un atto di grande coraggio e di sprezzo di pericolo che un agiato albergatore come lui poteva anche evitare: Pietro, fin dal suo periodo di emigrazione in America, aveva una disistima verso il fascismo e le dittature in generale ed entrò nella Resistenza subito dopo l’armistizio.

Utilizzerei le parole di Celestino Giuliani, tratte da una testimonianza di venti anni dopo gli eventi; Giuliani, avvocato nato a Gemmano nel 1907 e deceduto nel 1975, era stato un esponente dapprima del Partito d’Azione e poi del Partito Repubblicano, aveva partecipato alla fondazione del nucleo del futuro C.L.N. locale nel settembre 1943. Tenente dell’esercito, aveva sostenuto una lotta contro il fascismo sia ideologica sia militare, riportando due incarcerazioni; dopo la liberazione fu assessore nella prima giunta comunale di Rimini. Amico di Arpesella, lo convinse ad unirsi a questa impresa che sembrava impossibile: riportare tre alti ufficiali inglesi al di là della linea di combattimento, in quel momento sul fiume Sangro.

Raccontò Giuliani: “Tonino Spazzoli di Forlì, eroico martire dell’idealità mazziniana, accompagnò in territorio riminese i tre generali, che furono affidati al riccionese Pietro Arpesella e a me. Conoscevamo i rischi a cui andavamo incontro: nel migliore dei casi la fucilazione promessa dai bandi tedeschi. Dapprima i tre alloggiarono a Riccione, nella stessa abitazione di Arpesella [a soli 50 metri dal comando tedesco]. Ad esso si era aggiunto il padre Leone di Camaldoli, perseguitato dai fascisti. Per salvarli fu deciso di portarli a Cingoli nelle Marche, ove si sapeva dell’esistenza di formazioni partigiane efficienti. […] I tre furono alloggiati, con somma imprudenza in un albergo di Cingoli. Da lì dovemmo portarli via subito a causa del trapelamento del segreto. Andammo in una casa privata ed attendemmo i mas che avrebbero dovuto venire a prelevare i tre ufficiali sul litorale di Potenza Picena. I mas vennero ma incapparono in un campo minato e non poterono prendere riva. Così non ci rimaneva altro che fare ritorno in Romagna insieme con gli accompagnatori ing. Cagnazzo e i signori Galluzzi di Cattolica. I tre generali, ricongiuntisi con padre Leone, trovarono alloggio ora in una casa ora in un’altra finchè il 21 dicembre vennero imbarcati, verso le ore 18, nel porto di Cattolica, su un peschereccio che prese il largo la mattina dopo, sfuggendo beffardamente agli occhi delle sentinelle tedesche. Nello stesso giorno, con l’aiuto di una forte nebbia, il peschereccio giunse in salvo a Termoli”.

Pietro, già quindi attivo nel nascondere i fuggitivi, fu anche colui che ingaggiò, per 100.000 lire, l’equipaggio del peschereccio, intitolato curiosamente “Dux” e comandato da Francesco Ercoles. La fuga fu oggetto di indagini che portarono all’incarcerazione di Giuliani per cinque mesi e di Arpesella per quasi tre, con la costante minaccia di essere giustiziati, morte che riuscirono ad evitare solo per un soffio. Non andò altrettanto bene all’autista Alfredo Lisotti, animo gentile e generoso, che accompagnò i tre generali nei loro spostamenti salutandoli alla partenza con grande affetto: tradito da una spia fu torturato e morì qualche mese dopo proprio a causa delle sevizie subite.