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Il Ponte di Augusto e Tiberio è chiamato dai Riminesi “il ponte del diavolo”: si può affermare a ragion veduta, dato che non solo è riuscito a resistere quasi misteriosamente a tanti secoli, alle guerre e ai tentativi di distruzione dei Tedeschi, ma anche perché una volta ciò è stato il frutto di una menzogna.

Nei piani militari hitleriani infatti era prevista, durante la ritirata dell’esercito, la distruzione di tutte le infrastrutture civili e quindi di ogni manufatto che potesse essere utile ai nemici che attaccavano: il maresciallo Albert Kesselring, sempre fedele esecutore degli ordini superiori, non trascurava tale disposizione, anche perché in questo modo si sarebbe ritardata l’avanzata alleata.

Il 20 settembre 1944 Kesselring aveva dovuto prendere atto dello sfondamento dei Canadesi a Covignano i quali, puntando verso le Celle, minacciavano di accerchiare la nostra città. Il maresciallo aveva rinunciato a malincuore a difendere Rimini casa per casa, come invece era successo a Montecassino, su pressione del comandante della Decima armata Von Vietinghoff che non voleva perdere i migliori uomini in un’operazione che riteneva inutile. Ma non per questo si voleva rendere facile il transito del Marecchia agli Alleati.

Per intralciare il passaggio dei nemici fu incaricato Willi Trageser, esperto geniere del Primo Battaglione Pionieri Paracadutisti tedeschi, di far saltare i monumenti principali di Rimini rimasti ancora in piedi dopo i pesanti bombardamenti alleati: l’Arco di Augusto e il Ponte di Augusto e Tiberio (il Tempio Malatestiano era già stato quasi del tutto distrutto dalle bombe). L’Arco era in una posizione isolata, così voluta dal podestà Palloni dieci anni prima abbattendo gli edifici circostanti. Trageser capì che la sua demolizione non avrebbe presentato nessuno ostacolo e perciò desistette dall’impresa (dirà infatti nel dopoguerra: “Io personalmente diedi l’ordine di non far saltare l’arco, assumendomene la piena responsabilità […] Mi pareva assurdo distruggere un monumento storico del genere per non ottenere alcun risultato, dato che l’arco era isolato in mezzo ad una piazza e quindi il traffico avrebbe potuto continuare benissimo, sia a destra che a sinistra del monumento stesso”).

Invece per il Ponte la questione era diversa: era un punto fondamentale per il transito dei mezzi alleati e quindi, in una logica bellica, andava distrutto. Perciò nella notte del 20 settembre, il sottufficiale tedesco, con la sua squadra, provvide a minarlo con cura: un esplosivo non particolarmente efficace ma disponibile in grande quantità, l’“ammonal”, fu collocato per un quintale alla base del manufatto e per 160 chili in otto fornelli, creati sotto il piano stradale in corrispondenza dei piloni centrali e collegati a catena con pezzi di grondaia. Data l’esperienza dei genieri, l’“ammonal” impiegato era certamente sufficiente a demolire un ponte di tal fatta ma, per la prima volta, quel diavolo che nei secoli i Riminesi hanno pensato fosse il protettore del fondamentale punto di attraversamento del fiume, ci mise il cosiddetto zampino: la detonazione provocò molto rumore e fumo ma poche lesioni. Il geniere tedesco infatti disse: “C’era un certo accavallamento di fili per cui ci fu solo un’esplosione parziale che non fece alcun danno […] Effettivamente l’uso delle grondaie fu la salvezza del ponte perché il detonatore funzionò male e solo due fornelli esplosero”. Probabilmente influì anche la pioggia, avendo l’“ammonal” il difetto di assorbire l’umidità alterandosi.

Trageser riprovò per altre due volte, ma non ci fu nulla da fare. Pioveva, era notte, le prime ore del 21 settembre stavano trascorrendo mentre le avanguardie nemiche avanzavano: forse per evitare di essere catturato Trageser, mentendo, comunicò al comando l’avvenuta distruzione del Ponte: il diavolo era intervenuto una seconda volta. La mattina i reparti alleati lo trovarono integro e completamente sgombro, ignari che fosse stato minato: lieti di aver trovato il passaggio sgombro, soldati e mezzi lo attraversarono con facilità. Ma, come si suol dire, il diavolo fa le pentole e non i coperchi: alcuni prigionieri tedeschi fuggiti da Ancona, utilizzando un autocarro trafugato, erano tornati tra le loro linee percorrendo il Ponte; ciò significava quindi che era rimasto illeso, transitabile e funzionale alle esigenze dell’esercito inglese. Trageser si trovò quindi in una difficilissima situazione: aveva trasgredito agli ordini e pure mentito. Disse, a sua discolpa, che era convinto che fosse stato distrutto perché si era elevata un’alta colonna di fumo, ma essendo una notte piovosa con i nemici alle calcagna, non era andato a controllare. Per sua fortuna riuscì a convincere il comando tedesco che decise di soprassedere.

Nessuno però sapeva che era rimasto l’esplosivo nel Ponte: per oltre dieci anni migliaia di autovetture, autocarri e carri armati lo percorsero, correndo, anch’essi ignari, un pericolo davvero notevole e con la minaccia di un’esplosione dell’imponente costruzione romana.

Il 29 gennaio 1957 un operaio addetto alla manutenzione, si accorse che vi erano candelotti di “ammonal” non detonati. Questo giornale il 30 gennaio diede la notizia e il transito sul ponte fu bloccato per metterlo in sicurezza. In seguito il capopagina Amedeo Montemaggi ricostruì storicamente la vicenda e nel 1981 promosse l’incontro della vedova di Trageser con le autorità della città: in fondo il defunto marito, una volta volendo e una volta mentendo, aveva risparmiato a Rimini la distruzione di due tra i più importanti monumenti romani.