RIMINI RITROVATA: Immagini degli anni Cinquanta negli scatti inediti di Amedeo Montemaggi
Il testo di Andrea Montemaggi
«Avete sottomano un mucchio d’oro,
idioti che siete, ed eccovi lí impalati!
Sareste ricchi come tanti re, se trovaste “quello”:
e voi sapete che c’è, e vi ciondolate come marmotte».
Robert Louis Stevenson, L’isola del tesoro
«L’isola del tesoro» era uno dei libri preferiti di mio padre, un romanzo che sentiva proprio e che in qualche modo riassumeva i sogni di chi è sempre in cerca di una fortuna, fosse anche un’amicizia. Perciò, quando ho rivisto pacchi di negativi di sue fotografie aprendo un armadio, non ho potuto fare a meno di capire che erano la mappa del tesoro che ci aveva lasciato, un tesoro composto non di monete d’oro ma di inestimabili ricordi della sua vita, trascorsa insieme cinquant’anni.
Capivo, pur non comprendendo interamente le immagini dei bianchi e neri invertiti, che esse erano echi di un tempo distante che tuttavia giungevano a noi. Nella sua lotta contro l’oblio, mio padre sapeva che il mezzo che l’uomo ha per combattere la dimenticanza è la consegna di opere, letterarie o artistiche, che raffigurano gli istanti di una vita. Non era quindi difficile seguire il percorso di questa mappa del tesoro, sapendo quanto egli amasse l’arte, quanto passione avesse per la fotografia, quanto studio ponesse nel guardare riviste come «Life» che, finché furono pubblicate, costituivano per lui la principale fonte di interesse quando tornava a casa dopo il lavoro. Grazie al consiglio di Nicola Gambetti e all’inestimabile opera di Maurizio Bonora che, scandendo i negativi, mi ha permesso di scoprire questo tesoro in tutto il suo splendore, ho potuto ritrovare le tantissime monete d’oro che sono le innumerevoli foto di grande valore artistico che mio padre aveva scattato lungo la sua vita. La mostra, curata egregiamente da Sabrina Foschini con l’indispensabile e generoso aiuto di Nadia Bizzocchi e Giovanni Sassu e il fondamentale appoggio del Sindaco di Rimini Jamil Sadegholvaad, testimonia quanti gioielli contiene l’immenso scrigno lasciato in eredità a noi ma anche a tutta la città.
Ciò mi ha permesso di risalire all’origine di quegli echi, percependo sensazioni e sentimenti che promanano dalle immagini: se esse in molti fotografi sono quasi solo il documento di un istante, da lui invece, con l’arte fotografica, sono state trasformate in un’affascinante finestra nel tempo.
Ogni scatto è il risultato di un pensiero, di una composizione, di una rielaborazione dei criteri artistici che aveva maturato fin dall’infanzia, quando risparmiava tutte le piccole somme ricevute per comprare la rivista «Cinema» e che conservava gelosamente.
Un altro indizio che avrei dovuto cogliere era il ricordo di tante serate insieme quando, bambino, con lui entravo nella cucina trasformata in una improvvisata camera oscura. Era una vera e propria liturgia, complessa ma affascinante: estraeva le bottiglie di acido e le vaschette dove versarlo, poi poneva l’ingranditore al centro e predisponeva la carta apposita. Comparivano poi i negativi, a cui non davo tanta importanza: i bambini ritengono infinito il tempo e quindi non percepivo il valore del ricordo ma ero attratto dal fascino che emanava tutta questa operazione. Ora veniva il buio, con solo una lampadina rossa a rischiare la stanza. Il momento era cruciale: la carta veniva estratta e mio padre, novello mago Merlino, contava i secondi di esposizione e poi inseriva velocemente la carta nella vaschetta dello sviluppo. Ecco la magia: la carta improvvisamente si scuriva in alcune parti e apparivano misteriosamente immagini! Il miracolo era compiuto! Ma ora occorreva bloccarle, per l’eternità pensavo: la carta così apparsa veniva messa nella vaschetta del fissaggio e poi fatta asciugare. Tutto ciò sembra banalità nell’epoca del digitale, ma non potrò mai dimenticare questi momenti fatati.
Quell’eternità che da bambino credevo ci fosse e che da adulto ripensavo effimera, un passato trascorso fin troppo velocemente, si è riproposta ora: una vita rivissuta, un babbo riscoperto, una “Rimini Ritrovata”, come mia moglie Barbara per prima mi suggerì. Non solo rivedo però immagini che la memoria aveva cancellato ma anche quell’arte fotografica che mio padre aveva sviluppato e che mi aveva insegnato. Quando ho ammirato gli innumerevoli ritratti di familiari, di amici, di donne, o di personaggi comuni, ho sentito pulsare nuovamente la vita che tutti emanavano, la vittoria dell’immortalità sulla caducità.
E, nello stesso tempo, riviveva lui: mi sono ritornati in mente i suoi suggerimenti, i suoi consigli, i suoi incitamenti a proseguire nella grande arte della fotografia, certe sue spiegazioni di immagini di riviste oppure il forte collegamento con opere di grandi pittori del passato, come quando, per ottenere uno scatto folgorante, fece fermare l’auto in cui viaggiavamo perché aveva visto un suggestivo filare di cipressi: «Ecco “le lance” di Velazquez!»
Un chiaro esempio di elaborazione fotografica di una reminiscenza artistica si può rinvenire confrontando una delle migliori immagini degli anni ‘50, il tuffatore, con l’affresco della tomba del tuffatore di Paestum: per un intellettuale come lui, laureato in lettere classiche, veniva spontaneo il richiamo ad uno dei più famosi dipinti conservati dall’antichità. Si percepiscono inoltre, in qualche ritratto, richiami raffaelleschi e, in taluni chiaroscuri, echi caravaggeschi.
Anche l’arte contemporanea non gli era estranea, in particolare quella americana: nel 1945 aveva lavorato come interprete presso uno squadrone di bombardieri statunitensi di stanza a Miramare e perciò era venuto a contatto con l’American way of life. Il successivo abbonamento a riviste come «Time», «National Geographic Magazine» e «Life», gli fecero apprezzare artisti di oltre oceano e ciò vale in particolare per Edward Hopper la cui influenza, ad esempio con le opere Gas (1940) e Nighthawks (1942), si rivela in sue immagini degli anni cinquanta.
Mio padre diffidava di chi improvvisava: certamente da molti erano state scattate belle fotografie di cronaca, ma raramente la sua profonda formazione culturale gli faceva dimenticare che le grandi opere non sono frutto di improvvisazione ma di sentimento, di pensiero, di passione, di studio e di cura.
E in questo, come ognuno può vedere dagli esempi di questo libro, era un maestro eccezionale, un vero e proprio imaginis magister.
Excerptum da: RIMINI RITROVATA: Immagini degli anni Cinquanta negli scatti inediti di Amedeo Montemaggi, NFC edizioni, Rimini, 1922, pagg. 8-11