Cent’anni fa un’estate calda e violenta vedeva la giunta socialista guidata da Arturo Clari dimettersi. Un episodio commentato anche da Mussolini e Togliatti
Il 6 luglio 1922 avvenne un fatto eclatante che non sfuggì ai massimi esponenti politici dell’epoca: l’amministrazione comunale socialista di Rimini si dimetteva. Godeva di un’ampia maggioranza conseguita due anni prima: 32 consiglieri su 40 con gli 8 oppositori appartenenti al Partito Popolare1. Nessun esponente del fascismo né del liberalismo sedeva sui banchi del Consiglio Comunale.
Le elezioni politiche del 1921 avevano confermato la supremazia socialista, con 7256 voti, mentre i popolari ne contavano 4560, i comunisti 2198, il blocco nazionale (che comprendeva liberali e fascisti) 2003 e i repubblicani 13082. Quindi i partiti di sinistra, anche se non coalizzati, conservavano ancora un’ampia adesione nell’elettorato.
Il sindaco era Arturo Clari, socialista sì ma ben voluto e stimato, alieno da estremismi; e così pure gran parte della giunta non era certamente bolscevica. La sua amministrazione si era distinta per un diffuso attivismo tendente a risolvere alcuni dei problemi endemici della città: come ha affermato Matteini, «bisognava partire quasi da zero. Tutto era praticamente da fare: dalle strade alla luce, dalle scuole alle case, dai mezzi di comunicazione agli edifici pubblici, dai servizi igienici a quelli interni… E molto fu fatto: l’elettrificazione dei cinque chilometri della tranvia, festeggiamenti per il secentenario dantesco, la pubblica illuminazione elettrica da Bellaria a Riccione, la sistemazione della Piazza Giulio Cesare con l’abbattimento del cosiddetto Arco dei Magnani, le autoinnaffiatrici stradali, le autobotti per l’espurgo dei pozzi neri […], i nuovi locali dell’asilo infantile, i moderni macchinari per i pompieri, l’allargamento di Via Garibaldi fino a Via Sigismondo, la condotta medica di Gaiofana…»3.
Perché quindi queste dimissioni, che sottintendevano non solo il passaggio ad un commissario prefettizio (e quindi governativo) ma anche un cedimento rispetto al fascismo?
Si è parlato a lungo e diffusamente di ciò: è stato ventilato da più parti che le dimissioni fossero dovute a incapacità gestionale dell’amministrazione; l’opposizione del partito popolare riminese attribuiva il fatto a beghe locali. Non appare inutile sintetizzare in poche righe un’interpretazione degli eventi. La politica socialista, che si sarebbe potuta definire keynesiana ante litteram finanziando con debito i lavori intrapresi, era in verità un pretesto, un buon pretesto ma un pretesto.
Dai principali attori politici dell’epoca è abbastanza agevole capire quale fosse il senso attribuito a questo fatto. Il 6 luglio il Partito Socialista riminese, tramite il suo organo «Germinal», che terminò le pubblicazioni due giorni dopo, si affidò ad un proclama in cui lamentò che «la lunga aspra lotta sostenuta contro ogni sorta di difficoltà, di contrasti, di diffidenze […] è culminata oggi nella violenza contro le persone degli amministratori»4. Le dimissioni sarebbero dovute servire a pacificare gli animi.
In realtà c’era chi aveva un disegno ben preciso, che manifestò con audacia apertamente. Già il 7 luglio Mussolini, contestando il congresso socialista di Genova, affermava: «l’azione fascista – niente affatto indebolita, anzi ringagliardita dalla costituzione del Partito – procede irresistibile, con ritmo quasi fatale. Mentre i canonici del Pus [il partito socialista, n.d.A.] bagolavano a Genova, cadevano altre trincee socialiste a Cremona, ad Andria, a Rimini»5.
Con un famoso articolo il 15 luglio Mussolini dichiarò apertamente la sua strategia della tensione: con il titolo L’ imminente crollo delle ultime roccaforti del “PUS”. Onore ai fascisti di Cremona, di Rimini, di Andria, di Viterbo, di Sestri Ponente, il duce avrebbe avallato senza riserve le azioni violente, inserendole in un disegno ben preciso: «Il fascismo italiano è attualmente impegnato in alcune decisive battaglie di epurazione locale. Bisogna richiamare su di esse l’attenzione di tutti i fascisti che non sono direttamente chiamati all’azione. A Rimini, dalle ultime notizie giunteci, il fascismo è riuscito, sia pure attraverso l’inevitabile sacrificio del sangue, a penetrare e ad imporsi. La situazione è rovesciata. Rimini nelle nostre mani significa il braccio della tenaglia che ci mancava per serrare l’Emilia e la Romagna e nello stesso tempo Rimini fascista è il ponte di passaggio per la penetrazione nella Marca contigua»6.
L’«Avanti!», dopo aver l’8 luglio pubblicato l’articolo La grave situazione di Rimini. Come i fascisti conquistano e rovinano una città, solo il 6 agosto si accorse della strategia mussoliniana: «Il piano militare del fascismo, ideato con perizia da generali e ufficiali che dirigono le squadre d’azione, si svolge con precisione e con metodo. Occupata la parte destra della valle Padana e tenutala saldamente, i battaglioni fascisti sono scesi ad impadronirsi del centro dell’Italia: […] c’era un intoppo serio sopra tutti: le Romagne. Se queste non cadevano, i fascisti non potevano scendere giù nelle Marche. Presa Rimini, nodo stradale, i fascisti sono andati fino in fondo, fino alla conquista di Ancona»7.
Chi invece si rese immediatamente conto che la caduta del comune di Rimini sarebbe stata particolarmente importante, fu Palmiro Togliatti che il 6 luglio scriveva: «Le notizie della azione fascista sulla città di Rimini hanno avuto sino ad ora un rilievo molto scarso, certamente inadeguato, nella stampa e nella opinione pubblica italiana, anche sovversiva. Si è fatto l’abitudine prima agli atti individuali di violenza contro le persone e contro le cose, ai ferimenti, agli incendi, agli assassini, alle spedizioni punitive locali, e ora la si fa anche ai veri concentramenti militari per la conquista di una città, di una regione o per il rafforzamento di una posizione già conquistata. Si è fatta l’abitudine, e non si dà più ai singoli fatti il rilievo che sarebbe necessario. Il caso di Rimini invece deve essere sottoposto ad un esame speciale. Vi sono in esso elementi assai interessanti per chiarire in generale lo sviluppo dell’azione fascista in Italia»8.
Togliatti non sbagliava: come gli storici hanno appurato – a partire da Salvatorelli e De Felice – nel luglio 1922 era stato deliberatamente messo in atto da Mussolini il piano di alzare il livello dello scontro: oltre che colpire i socialisti, l’obiettivo era far ritenere imbelle e incapace di contrastare il fascismo il primo governo Facta, che infatti cadde il 19 luglio. Lo si vide molto più chiaramente nei giorni seguenti, quando le violenze squadriste costrinsero anche le amministrazioni di città più grandi a dimettersi.
Ciò si intuisce anche nel fascismo riminese che, fino a quel momento, era sembrato debole agli occhi dei vertici9: dal diario di Mario Morelli, in possesso di Alessandro Catrani, appare evidente che il fascismo bolognese guidato da Leandro Arpinati era scontento del segretariato di Lodovico Pugliesi, avvocato ritenuto uomo non d’azione10; non a caso impose come segretario della sezione riminese del P.N.F. Morelli, il quale si distinse poi per essere un attivo squadrista11. Come giustamente sostiene Catrani, già dal 21 maggio 1922, in occasione del primo anniversario della morte di Luigi Platania, non si era in presenza di «una semplice commemorazione ma di una fine mossa strategica delle menti fasciste (non solo locali) per saggiare la consistenza delle forze avversarie in vista della presa della città»12.
In verità l’azione contro Rimini era palesemente eterodiretta da Bologna, in particolare da Arpinati, il quale il 1° luglio chiedeva le dimissioni della Giunta socialista sulle pagine de «Il Resto del Carlino», diretto dal dicembre 1921 dal fascista Nello Quilici13.
Un’analisi molto interessante fu fornita da Francesco Merizzi, prefetto di Forlì di formazione giolittiana, in una serie di rapporti inviati in quel periodo. Il 29 giugno il prefetto incontrò il sindaco Clari, fascisti locali e Arpinati: quest’ultimo dichiarò che in base alle direttive date dal partito, l’agitazione serviva a tutelare i fascisti locali e la colonia fascista balneare; in realtà, Merizzi aggiungeva, si volevano porre le condizioni per costringere l’amministrazione socialista alle dimissioni, rendendo difficile il suo lavoro e quello degli impiegati con violenze e intimidazioni. Tutto ciò anche perché gli organi di stampa, in sostanza il «Germinal», avevano un’azione «propalatrice d’odio» favorita dalla stessa amministrazione; Clari ovviamente contestava le accuse. Il prefetto ritenne che il ferimento del fascista Frontali avvenuto qualche giorno prima fosse solo un motivo occasionale, che il giornale socialista eccedesse nelle polemiche e che la situazione finanziaria del Comune fosse molto difficile «con accentuati criteri di parte, anche se non risultavano abusi o prevaricazioni».
Tuttavia il 18 luglio, a dimissioni avvenute, lo stesso prefetto corresse le sue prime impressioni: la situazione finanziaria pesante non era dovuta solo alla giunta socialista ma anche alla precedente amministrazione Diotallevi e al Regio Commissario che nel 1919 non pagò il Consorzio Provinciale Granario usando le somme per altri scopi; che le malversazioni erano da imputare al Direttore, ora simpatizzante fascista: «La vertenza agraria fu la vera causa determinante il precipitare della situazione […], nella necessità per gli agrari di rovesciare la situazione in pendenza delle imminenti trattative per la revisione del patto colonico con una vigorosa offensiva contro i Comuni socialisti e le organizzazioni coloniche»14.
Il 25 luglio il prefetto ritornò sull’argomento: dopo aver accennato al protrarsi delle violenze, affermò che «continuità azione fascista dipende come ho già segnalato, dalle stesse cause che la determinarono e cioè non soltanto da occasionali attriti politici tra partiti locali, ma da propositi classi agrarie e fascisti rovesciare con azione diretta situazione amministrativa ed economica Circondario e stabilire nel Riminese un forte punto per la penetrazione delle Marche e della Romagna»15.
Si confermava così, anche dalle parole degli organi dello Stato quello che Mussolini proclamava e Togliatti aveva temuto. La pacificazione auspicata con le dimissioni si rivelò una chimera: le violenze continuarono16 e poco dopo sarebbe giunta la «colonna di fuoco» di Italo Balbo.
Note
1) N. Matteini, Rimini negli ultimi due secoli, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 1977, p. 383
2) N. Matteini, ibidem p. 383.
3) N. Matteini, ibidem, p. 375.
4) O. Cavallari, All’armi siam fascisti, E.L.S.A., Rimini 1977, pp.77-79.
5) «Il Popolo d’Italia» 7 luglio 1922.
6) «Il Popolo d’Italia» 15 luglio 1922. 7
) «Avanti!» 6 agosto 1922. 8) «L’Ordine Nuovo» 6 luglio 1922.
9) M. Masini, Rimini, a noi!, edizioni Chiamami Città, Rimini 1998, p.8.
10) A. Catrani, Anni Venti… che passione, Panozzo, Rimini 2004, p.187.
11) A. Catrani, ibidem, p. 190.
12) A. Catrani, ibidem, p. 170.
13) A. Catrani, ibidem, p. 182.
14) P. Grassi, Fascisti e Socialisti nelle relazioni del prefetto di Forlì (1921-1922) in «Storie e storia», Rimini, n.2/1979 p. 42.
15) P. Grassi, ibidem, p.43.
16) Per una elencazione di vari episodi di violenza in questo periodo si veda anche G. Giovagnoli, Storia del Partito Comunista nel riminese, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 1981, pp. 201 e segg.
Ariminum, agosto settembre ottobre 2022