È calato il sipario non solo al teatro «Galli», dove è normale, ma anche su piazza Malatesta. Un enorme sarcofago di cemento ha rinchiuso, per diversi decenni, un pezzo della storia di Rimini. Le «suggestioni felliniane», invece di convivere con il passato della città, ne hanno soppresso secoli di vita: pochi fortunati sono riusciti a scorgere, tra gli scavi compiuti per i «sottoservizi», ciò che si era conservato sotto il leggero manto di asfalto (orribile ma facilmente asportabile) prima che tonnellate di calcestruzzo (altrettanto orribile ma quasi impossibile da rimuovere) seppellissero tutto.
La cittadinanza è rimasta pressoché esclusa da questo spettacolo: potrà solo vedere una inservibile panca, tra qualche lumino, in mezzo ad un deserto (è consigliato, a chi l’attraversa d’estate, di fornirsi una riserva d’acqua). Abbiamo una notevole piazza d’armi che forse va di moda, visto che anche davanti alla Stazione vediamo qualcosa di simile. Mi chiedo perché questa segretezza, questa volontà di negare ai cittadini di Rimini la percezione di una cultura popolare quali, solo per fare un esempio, le case del ’400 che Oreste Delucca ci ha descritto nei suoi libri. Cantieri sigillati, fotografie proibite come fossero installazioni militari: anche se ricorda il deserto, la piazza non è la mitica area 51 nel Nevada. Sarà una grande conquista se solo si potrà intravedere in futuro, in fotografia, ciò che gli happy few hanno guardato con i loro occhi. Si parla di verde, arte e storia: ma di verde se ne vede poco, a parte i pochi alberi superstiti che hanno avuto la fortuna di resistere alla furia cementizia; l’arte è riassunta unicamente in Federico Fellini e, in un angolo, in Tonino Guerra; la storia emerge solo dai monumenti impossibili da occultare, anche se, mantenendo il fossato interrato, un tentativo di nascondere c’è stato.
Come poi possa il sistema di nebulizzazione rievocare l’antica monumentalità della Rocca è un mistero, quando in effetti l’unico risultato è quello di celarla.
Ma io sono un inguaribile visionario: continuo a sognare ad occhi aperti, non riesco a trattenermi e allora mi immagino Filippo Brunelleschi che discute con Sigismondo e gli propone un castello con un grande fossato che circonda alte torri e le slancia verso il cielo, segno di potenza, di ambizione, di gloria, di apoteosi e, perché no, di bellezza. Vorrei rivedere ancora quel castello, con le sue torri e soprattutto con il suo fossato, anche verde, ma che restituisca a tutti l’immagine di quello che Brunelleschi e Sigismondo avevano ideato: ormai sono solo irrealizzabili visioni.
Ariminum, agosto settembre ottobre 2022