Il decreto di amnistia per la gente di mare, presentato dal ministro della Giustizia Oviglio ed emanato alla fine del 1922, consentì a Giulietti di evitare un processo
“L’avv. Oviglio, padre di un ragazzo caduto nella recente guerra, ferito nell’eccidio di Palazzo D’Accursio, buon leguleio, uomo di fede nazionalista, offriva garanzie di lealtà alla rivoluzione, ma non era uomo capace di ipotizzare le strutture costituzionali di un’amministrazione del paese diretta alla creazione di un nuovo rapporto tra individuo e collettività”1.
In questo modo, sotto il velame delle parole di Enrico Corradini, Benito Mussolini dipingeva la figura di Aldo Oviglio, il riminese che salì agli onori della cronaca diventando ministro della Giustizia nel primo governo Mussolini, dal 31 ottobre 1922 al 5 gennaio 1925.
Oviglio era nato a Rimini il 7 dicembre 1873, si era laureato in Giurisprudenza a Bologna e in questa città aveva aperto uno studio legale di grande successo.
Come tanta intellighenzia dell’epoca, era di idee radicali e democratiche e si era iscritto alla massoneria nel 1909 divenendone in poco tempo una figura di spicco: nell’arco di un solo mese era già nominato maestro, segno di particolare considerazione.
Aveva anche fondato un giornale che a Bologna doveva raccogliere le idee dei partiti di sinistra da contrapporre a quelle clerico moderate rappresentate da “L’Avvenire d’Italia” e da “Il Resto del Carlino” .
Oviglio s’interessò anche alla politica diventando consigliere provinciale e si oppose alla guerra in Libia e all’intervento dell’Italia nel primo conflitto mondiale.
Tuttavia la perdita del figlio Gaelazzo, un ragazzo del 1899 che fu gravemente ferito nel giugno 1918 e morì pochi mesi dopo, lo fece avvicinare ai nazionalisti e candidare quindi alle elezioni amministrative del 1920 diventando consigliere comunale del capoluogo emiliano per conto della lista “Fascio democratico”.
Presente negli scontri di Palazzo D’Accursio a Bologna, non lontano da Giulio Giordani, morto durante il tumulto, pose la rivoltella sul tavolo della sala del consiglio dicendo che non era venuto per uccidere2.
Il fatto fu determinante per l’adesione di Oviglio al fascismo e il giorno stesso andò ad iscriversi al fascio di Bologna; si presentò poi candidato alle elezioni politiche per il Blocco Nazionale, risultando il più votato, davanti anche a Mussolini, Grandi e Arpinati.
Oviglio tuttavia aveva idee molto più moderate, era legalitario e non amava lo squadrismo, facendosi perciò subito nemici gli esponenti dell’ala più intransigente del fascismo come Farinacci.
Mussolini, probabilmente per rassicurare l’opinione pubblica, lo scelse per il suo primo governo, formato subito dopo la marcia su Roma, quale ministro della Giustizia, uno dei tre dicasteri tenuti dai fascisti.
La sua vicenda ministeriale fu caratterizzata da continui dissensi con il duce, in quanto Oviglio intendeva tenere il potere giudiziario autonomo dall’esecutivo, non sempre riuscendo in questo proposito; alcune sue riforme, come la nomina dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura da parte del governo, andavano nel senso auspicato dal fascismo, ma erano considerate troppo timide.
Oviglio deplorò l’omicidio Matteotti e all’indomani del discorso del 3 gennaio 1925 con il quale Mussolini si assumeva la responsabilità morale del delitto, si dimise rifiutando la Presidenza della Camera il cui scranno era occupato da chi lo sostituì, Alfredo Rocco. Rocco, pure nazionalista, era però molto più desideroso di Oviglio di creare un’Italia fascista e di asservire la magistratura ai voleri del duce, per trasformare il Paese in una dittatura.
Delle dimissioni approfittò Farinacci, che appena divenuto segretario del Partito, espulse il riminese “per aver in più occasioni dimostrato di essere privo di fede fascista”. Tuttavia, passata la parentesi del ras cremonese, Oviglio fu riammesso nel partito e addirittura nominato senatore del Regno.
In questa veste assunse la difesa di Ezio Balducci nel processo per il Colpo di Stato a San Marino ma partecipò alla vita politica del paese in modo defilato fino alla morte avvenuta nel 1942.
Un episodio unisce Oviglio ad un altro riminese all’epoca molto noto e più volte ricordato in queste pagine, Capitan Giulietti.
Nel clima rivoluzionario del biennio rosso, anche per riavvicinarsi ai socialisti dopo gli scontri avvenuti a causa del suo interventismo, Giulietti aveva ordinato che una nave russa “bianca”, una nave cioè che non si era consegnata ai bolscevichi ma si era diretta a Genova, fosse assaltata dai marittimi del sindacato di cui era segretario per essere restituita a chi considerava la legittima proprietaria, cioè la Russia sovietica.
Ne erano scaturite denunce, mandati di cattura e un processo, che impensieriva molto il riminese, da celebrarsi il 6 novembre 1922.
Nei giorni precedenti la marcia su Roma, Giulietti era anche preoccupato per la violenza dello squadrismo – egli stesso subì un attentato a San Marino il 1° ottobre 1922 – nonché per la creazione di un sindacato fascista concorrente alla Federazione del Lavoratori del Mare da lui guidata.
Con la sua abituale scaltrezza e spregiudicatezza, Giulietti si recò a Gardone da D’Annunzio, convalescente dal famoso “volo dell’Arcangelo” avvenuto il 13 agosto, per offrirgli la guida “spirituale” del sindacato. Il poeta era in una fase particolare della sua attività politica: lontano ormai il momento dell’impresa di Fiume, era probabilmente incerto quali mosse proporre e le numerose truppe dell’organizzazione marinara (che contava circa sessantamila tra federati e soci della «Garibaldi») potevano essere un comodo e solido piedistallo per le sue prossime iniziative: D’Annunzio infatti immaginava di emergere quale autorità al di sopra delle parti, per la pacificazione e la cessazione della guerra civile e a tal fine aveva progettato una grande manifestazione a Roma per il 4 novembre, anniversario della vittoria.
Giulietti, intuendo anche le prossime mosse di Mussolini, promosse un suo incontro con il poeta e ne scaturì un patto stipulato il 16 ottobre ma pubblicato il 21: di fatto si riconosceva la guida del sindacato marinaro a D’Annunzio e Giulietti, si decideva la soppressione del sindacato fascista ma il Vate sostanzialmente rinunciava ad opporsi ai disegni, per la verità non ancora ben noti, del duce: quest’ultimo ne approfittò per accelerare i tempi e fissare la marcia su Roma una settimana prima di D’Annunzio. Corollario importante sarebbe stata un’amnistia per la gente di mare, anche se l’impegno non era stato espressamente menzionato nel patto.
Tuttavia tale particolare doveva restare segreto. Infatti la questione amnistia non era semplice da risolvere nemmeno per Mussolini al potere, come si deduce da una lettera di Oviglio, Ministro di Giustizia, in cui egli, per rispondere ad un’interrogazione del senatore Amero d’Aste notoriamente vicino agli armatori, riepilogava le vicende di novembre relative al processo a Giulietti e concludeva che, pur avendo chiesto alla procura generale di disporre un rinvio, escludeva di aver accennato ad un’eventuale amnistia3.
In realtà il rinvio fu provvidenziale in quanto il 22 dicembre 1922 Oviglio presentò un regio decreto di amnistia appositamente per la gente di mare4, consentendo quindi a Giulietti di evitare il temuto processo.
Note
1Yvon De Begnac, Taccuini mussoliniani, Bologna, Il Mulino, 1990, p.243
2Mentre il Corriere della Sera del 23 novembre 1920 lodò “la serenità e il coraggio” di Oviglio, Vilfredo Pareto in una lettera a Maffeo Pantaleoni bollò il gesto come atto di viltà
3 Lettera di Oviglio a Mussolini del 28 novembre 1922 in Archivio Centrale dello Stato, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, busta 7, sottofascicolo 2, carteggio 1920-1932, inserto “B”.
4 Nella Relazione al Regio Decreto n.1642 che concedeva “l’amnistia per reati concernenti la libertà di navigazione e la marina mercantile”, si riconosceva la derivazione del provvedimento dall’accordo avvenuto con D’Annunzio.
Ariminum, settembre ottobre 2016