Il lettore che in questi mesi ci ha seguito, in particolare nel racconto della vicenda dell’Isola delle Rose e nelle riflessioni su Federico Fellini, avrà sicuramente notato come a corredo di tanti articoli vi siano numerose immagini di Davide Minghini, il fotografo che più di tutti negli anni d’oro della nostra città ha documentato la trasformazione di Rimini in città internazionale. Questa rivista si è già occupata di Minghini, molti anni fa; qualcuno ne ha scritto in occasione delle sue mostre, cercando di coglierne le caratteristiche peculiari, non senza amnesie. Il mio ricordo vuole essere un omaggio affettuoso di chi fin dalla nascita l’ha conosciuto, l’ha osservato, l’ha apprezzato per le sue immagini; è una visione del tutto personale, ammantata dal fascino del passato della propria infanzia che ispira, trasforma e rende eterea la figura di chi non c’è più. La redazione riminese de Il Resto del Carlino era in fondo la mia seconda casa, ove i miei genitori trascorrevano gran parte del loro tempo; Duilio Cavalli, Luigi Pasquini e, per un certo periodo, Gianni Bezzi, erano come zii che mi guardavano con quell’affetto con cui si tratta un nipotino curioso. Ma per me “Dino”, come noi tutti lo chiamavamo (“Mingo” sarebbe venuto molto dopo, anche se per battuta qualcuno già lo battezzava in questo modo), era magico, creava immagini che si trasferivano misteriosamente dall’occhio alla carta. Appariva in redazione quasi furtivamente, per consegnare il frutto della sua fatica giornaliera, con il sorriso celato sotto quei tipici baffi che, insieme all’abbondante brillantina, lo distinguevano già dal primo sguardo. Dietro quei mustacchi neri, maschera e cortina fumogena di discrezione, si nascondeva un mondo, ma talvolta sfuggivano espressioni compiaciute e parole sapientemente calcolate. In altre occasioni però il tempo trascorso era più disteso: con il filobus, d’estate raggiungevamo il negozio nell’attuale Piazzale Kennedy e trascorrevamo chiacchierando l’otium del riposo dopo l’ultimo invio del “fuori sacco” serale a Bologna. La sua macchina fotografica preferita, la Rolleiflex, per me era ancora più misteriosa: aveva due occhi come uno strano mostro e inquadrava l’oggetto in un modo inconsueto e non direttamente, in quanto si usava dall’alto, reclinando la testa; all’inesperto infante l’immagine del visore sembrava si spostasse sempre dalla parte opposta di quella desiderata. Dino era una persona umile, ma di quella umiltà che rende grandi: non strepitava né si insuperbiva, interveniva raramente ma era sempre pronto a scattare, inconsciamente orgoglioso di essere testimone di un particolare fatto. E come testimone doveva immortalare ciò che vedeva, doveva registrarlo per il presente – e per il futuro, anche se forse non se ne rendeva del tutto conto. E tutti i giorni fotografava, quasi non ci fosse altra ragione di vita, come se dovesse sfuggire a un misterioso horror vacui, un involontario timore che, in una città in continua mutazione, il tempo passasse senza che lui avesse registrato lo status quo ante, ciò che era prima dell’ultima novità che, ne era certo, sarebbe presto avvenuta: si sentiva realizzato quando poteva essere al momento giusto nel luogo giusto. Quando, iniziato ai misteri della fotografia da mio padre – un altro grande appassionato che ha lasciato tantissime testimonianze anche iconografiche del cambiamento della nostra città – ho esaminato criticamente gli scatti di Dino, l’ho definito “cogli l’attimo”: quasi un tardivo epigono di Zenone di Elea, il filosofo della realtà immobile ed autore del famoso apologo di Achille e la tartaruga, Minghini era infatti impareggiabile nel riuscire a fermare l’attimo fuggente nel dinamismo della vita. Come da un film, che in fondo è una sequenza di fotogrammi, Dino estraeva istantanee dalla serie di eventi che caratterizzano l’esistenza umana. Perciò si comprende la sua frenesia nel “cogliere l’attimo”: lo scorgevo cercare senza pausa la posizione migliore per scattare, lo osservavo sempre intento a guardare il visore della sua Rolleiflex, incurante del peso della batteria del flash, lo vedevo continuamente apparire e scomparire senza farsi notare, proprio come un mago. Minghini amava l’uomo immanente, che parla, agisce, costruisce. I personaggi delle sue foto sono di solito tra il primo e secondo piano prospettico più che protagonisti assoluti: spesso nell’inquadratura c’è spazio per un ampio sfondo, come se il fotografo volesse localizzare e non astrarre il soggetto dall’ambiente in cui opera, che sia un convegno, un ristorante, una stanza o un panorama. Forse più che fotografo, Dino era un moderno illustratore, colui che rappresenta al lettore ciò che l’articolista scrive e che in quell’immagine deve dare l’idea e percepire l’essenza dell’attimo colto. E si comprende pienamente Minghini se lo si pensa al lavoro con un giornalista, mentre insieme formano un originale e simbiotico fotoreporter. L’interprete attuale, che vive in una temperie molto diversa, dove all’ottimismo si sostituisce nella migliore delle ipotesi il rinnovamento dell’esistente in un’ottica di conservazione più che di sviluppo, compie irrimediabili errori se non contestualizza le immagini nel tempo o al contrario se non si sottrae al fascino dell’immagine che sembra eterna. Inconsapevolmente, Minghini è stato un grande laudator temporis acti. Come tutti i protagonisti di quel periodo storico della nostra città che abbiamo chiamato “Rimini felix”, Dino aveva una fiducia quasi illimitata nel progresso, era orgoglioso che il suo luogo natio da “borgo” diventasse “città”, in questo canzonato dallo stesso Fellini. Questa concezione era comune in quel periodo e nasceva dall’aver vissuto in una realtà che aveva subito con la guerra la quasi totale distruzione. L’energia che era scaturita dalla ricostruzione non era solo frutto dei denari del Piano Marshall, ma dall’intima convinzione che il domani sarebbe stato migliore dell’oggi. Se ci si riflette, l’obiettivo della Rolleiflex di Minghini non era “obiettivo” in quanto le immagini trasudano questo ottimismo: sembrano comunicarci che l’oratore fotografato è comunque importante perché sta dicendo sicuramente che andrà meglio; le cene sprizzano gioia conviviale; gli incontri ufficiali servono a disegnare un futuro che dischiude orizzonti di gloria; si festeggia e si balla perché si sta respirando la felicità; si ride e ci si sente perennemente giovani perché le immagini sono tanti ritratti di Dorian Gray, che donano un effimero ed illusorio senso di eternità. E chi è stato protagonista di uno dei suoi scatti non può non provare ora un sentimento di rimpianto per questa antica giovinezza che le sue fotografie consegnano al lettore.
Ariminum
gennaio febbraio 2021