Caustico e risoluto, fu tra i primi ad indossare il “clergyman”; univa la passione religiosa a quella politica, riversando su entrambe tutte le sue energie
Don Domenico Calandrini non era nato per essere un curato di campagna né per trascorrere la vita come un tranquillo Don Abbondio: animato da profonde convinzioni e da un temperamento caustico e risoluto, univa la passione religiosa a quella politica, riversando su entrambe, in egual misura, tutte le proprie energie.
Benchè la sua nascita fosse avvenuta il 17 luglio 1922 a Faenza, era stato ordinato sacerdote a Rimini il 24 febbraio 1945: emerse fin da subito un carattere deciso, attivo e interessato a tutto. Dal maggio 1948 fu assistente ecclesiastico delle ACLI, che erano state fondate da pochi anni e successivamente si occupò del Movimento Rinascita Cristiana.
In verità però la missione che più sentiva era la costruzione della chiesa di San Girolamo: negli anni cinquanta l’espansione edilizia aveva reso agli occhi della curia riminese troppo limitato quella di San Nicolò per la cura delle anime di Marina Centro ed era invece emersa la necessità di creare una nuova parrocchia che comprendesse anche una parte del territorio della parrocchia di Santa Maria Ausiliatrice.
Don Domenico vi si gettò nell’impresa con anima e corpo: la sua febbrile ed intensa attività sembrava proprio ciò che serviva per realizzare la non indifferente impresa della costruzione ex novo di un edificio di rilevanti dimensioni.
L’elemento caratterizzante fu il sodalizio con l’architetto Luigi Fonti, il quale stava realizzando un’innovativa architettura, completamente condivisa con Don Domenico, per cui si esaltava nella chiesa uno spazio dove l’assemblea non sarebbe stata più davanti ma attorno all’altare: tale interpretazione fu approvata dal Vaticano che disse che a Rimini “l’arte è una risposta alla vita”.
La questione fondamentale era il finanziamento e per risolvere questo problema Don Calandrini mostrò le sue capacità rivolgendosi ai turisti e scrivendo opuscoli (“La lettera all’ospite”) che reclamizzavano l’opera in costruzione. In realtà questa fu anche l’occasione per sviluppare una sua particolare abilità nel giornalismo, ritagliandosi ben presto un ruolo di non poco conto nell’ambiente riminese.
Infatti, a fianco del sacerdozio prese sempre più piede un interesse concreto nella vita cittadina, non solo come spettatore, ma come commentatore e poi attore. I suoi interessi si dilatarono in più ambiti: si occupò di arte scoprendo il crocifisso ligneo quattrocentesco attualmente conservato al Museo della Città e celebrando anche una messa per Leon Battista Alberti nel 1972, in occasione del quinto centenario della morte; nel campo della sociologia analizzò più volte la situazione scolastica locale nonché la condizione del clero nella diocesi, rivelando una particolare predisposizione per le statistiche come elementi di giudizio.
Ma ciò che più lo attirava era la politica: con la sua consueta ironia, mi disse una volta che i responsabili della Democrazia Cristiana si erano ispirati alle sue iniziali nell’attribuire il nome al partito.
Senza pregiudizi dialogava e polemizzava con gli avversari, generalmente appartenenti al Partito Comunista che governava la città, senza però che la discussione travalicasse i termini della correttezza: una famosa foto lo ritrae in atteggiamento cordiale proprio con il sindaco di Rimini.
Divenne consigliere di quartiere, ma preferiva le conversazioni in piazza per esprimere le proprie idee, che sosteneva con foga creandosi spesso inimicizie; amava commentare i dati politici ed era un fine analista dei risultati elettorali, sia locali sia nazionali.
Ciò non significa che non si occupasse della vita della Chiesa: era il periodo post conciliare e i fermenti nel clero erano tanti e variegati e si registrano molti interventi di Don Domenico per adeguare la struttura ecclesiale alle novità appena giunte.
Sebbene fosse ortodosso nella fede e fieramente anticomunista, era aperto ad alcuni aspetti della modernità, anche in ambito clericale: insieme, tra gli altri, ad Antonio Zavoli e Piergiorgio Grassi, partecipò nel 1965 alla fondazione del “Circolo Maritain” che fece poi tanto scalpore; fu uno dei primi preti a indossare il “clergyman” anziché il tradizionale abito talare e, pur rammaricandosi in privato che non fossero state adottate misure ancora più avanzate soprattutto riguardo alla vita sacerdotale, accolse con favore alcune innovazioni del Concilio Vaticano II (“dopo un anno le valutazioni più obiettive sulla Riforma liturgica sono discretamente positive”): ad esempio l’uso della lingua italiana nell’amministrazione dei sacramenti, l’attribuzione di un ruolo più rilevante attribuito ai laici ed una maggior democraticità nella Chiesa, con qualche perplessità sulla sostituzione della musica sacra.
Provò una certa delusione quando terminati i lavori della costruzione della chiesa di San Girolamo, non fu nominato titolare della neocostituita parrocchia: l’amarezza, assai manifesta, fu mitigata dall’importante ruolo di canonico della cattedrale.
Molti pensavano che la passione politica non gli avesse giovato, ma Don Domenico non ne fu certo scoraggiato: anzi, con rinnovato vigore, si tuffò nella politique politicienne, trovando un nuovo cavallo di battaglia nell’opposizione ai progetti urbanistici della città, dapprima al Piano Regolatore di Campos Venuti del 1965 e poi, soprattutto, al Piano Particolareggiato cosiddetto “De Carlo” dal nome dell’architetto che lo aveva ideato.
Fu la sua grande battaglia, che intraprese convinto che tale piano, con i suoi “condensatori”, la distruzione di interi quartieri e la monorotaia sopraelevata, avrebbe distrutto la memoria e la tradizione di Rimini; battaglia che combattè vittoriosamente ottenendo l’abbandono del rivoluzionario e utopistico progetto di rifondazione (e stravolgimento) della città.
Poi un ultimo grande atto di coraggio: nel 1973 divenne direttore responsabile e socio della neonata “VGA Tele Rimini”, la quale operava però in una situazione giuridicamente molto difficile in quanto solo l’anno successivo la Corte Costituzionale avrebbe reso lecita l’esistenza delle televisioni private.
In questi anni acquistò una fama sempre maggiore tanto che oggi molti ancora ricordano Don Domenico vividamente, soprattutto per il suo dinamismo e la sua vitalità. Per Italo Giorgio Minguzzi “era un panzer e non aveva paura di nulla: testimone critico della vita riminese, era però sempre cordiale con tutti, anche con coloro che erano meno cordiali con lui… Univa una profonda religiosità, fatta di convinzione autentica, ad una presenza interessata agli avvenimenti della sua città: nessuno allora poteva prescindere dai suoi giudizi. Ne abbiamo sentita fortemente la mancanza.”
Giancarlo Ferrucini ricorda la sua estrema curiosità, la sua avidità nel sapere, nel sapere tutto, dai più ampi aspetti della cultura ai segreti della città e dei Riminesi.
Fabio Zavatta ha detto: Don Calandrini “ci insegnò la passione per la politica a partire dai fatti di casa nostra; ma non lo fece con prediche o discorsi, lo fece immergendovisi dentro lui stesso. Scrisse di politica e fece politica… [Fu] prete straordinario e fuori misura in vitalità, generosità, vis polemica e in molto altro ancora, tanto appassionato di questa nostra realtà, da svolgere, contro il parere di tutte le gerarchie, il ruolo di Capogruppo nel Consiglio di Quartiere n°4 per diversi anni quando anch’io ero giovane consigliere in quel Quartiere”.
Allevò anche giovani come Silvano Cardellini presentandoli alla redazione del “Carlino”, grazie all’amicizia maturata fin dagli anni cinquanta con il capopagina Amedeo Montemaggi, perchè facessero la rituale “gavetta” presso il più autorevole quotidiano locale.
Quando sembrava che l’influenza e il ruolo di Don Domenico si consolidassero e diventasse un protagonista della vita politica riminese, un ictus lo colpì improvvisamente lasciandolo vivo ma in gravi difficoltà: come era la sua natura, con caparbietà lottò contro il male e quando sembrava che stesse recuperando una ricaduta gli fu fatale.
Alla sua morte l’epitaffio fu :“Non accettò compromessi e deviazioni che turbassero l’animo dei fedeli. Iniziò l’ultimo mattino della vita celebrando con intensa commozione. Come uomo di penna, di pensiero e di cultura, si calò nel tessuto sociale colle intuizioni ambientali e del momento. Rifiutò l’ozio mentale e la mediocrità…” Sarebbero state adatte anche le parole di San Paolo nella seconda lettera a Timoteo: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede.”
Era il 28 agosto 1974 e Don Calandrini aveva da poco compiuto 52 anni.
Ariminum, maggio giugno 2017