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A commento della mostra “Rimini ritrovata” Giovanni Rimondini mi ha espresso alcuni suoi pensieri, tra cui il fatto che le fotografie esposte rappresentano la vita di un popolo di gente bella e buona negli anni Cinquanta. Poi mi ha aggiunto che è rimasto colpito dall’immagine con i resti del vescovado e, nella nicchia, la statua gigantesca di San Gaudenzo di Carlo Sarti: «sembra che se la sia cavata, con qualche sbucciatura. Purtroppo mi è tornata in mente una foto con i resti di quella statuona buttati in terra».

Mi sono chiesto: perché questa gente bella e buona ha voluto distruggere tanto di quel poco che si era salvato dai bombardamenti per poi costruire palazzi e grattacieli che oggi definiremmo ecomostri?

Ripensavo a tante altre devastazioni del passato, come la demolizione della cattedrale di Santa Colomba: ne ho dedotto che il disprezzo verso la bellezza, l’arte e la cultura fosse un relitto del passato; influenzato dal mio innato ottimismo, ho creduto che invece questa sensibilità per la loro salvaguardia ora fosse finalmente sbocciata.

Poi ho avuto una visione: guardavo dall’alto come è stata trasformata Rimini dagli anni sessanta in poi e nello stesso tempo mi appariva Rimini come sarebbe stata se certi architetti “brutalisti” avessero avuto mano libera nella pianificazione della città. Vedevo la monorotaia di De Carlo sopra i bastioni con la gigantesca stazione vicina a Castel Sismondo e il borgo San Giuliano trasformato in una distesa di “condensatori”, quei moduli abitativi fabbricati in serie e tutti uguali tanto amati dal celebre urbanista.

Sarebbe già stato sufficiente ma la visione non terminava: comparivano sferisteri abbattuti per far posto a squadrati cubi di cemento armato, palazzetti dello sport eretti su necropoli paleocristiane o in teatri diroccati, formicai verticali e interi quartieri edificati senza verde e senza spazi sociali, quando già da decenni nei paesi più avanzati il paradigma della sana convivenza uomo e ambiente è communis opinio.

In questo viaggio nel tempo, giunto a oggi, vedevo amene villettine con giardini di quel tempo antico di bellezza e di vita, costruite con sacrifici settanta anni fa, che venivano demolite per essere sostituite da anonimi condomìni il cui unico pregio è quello di saper sfruttare l’indice di edificabilità al massimo; e anche di più, se si riesce a utilizzare quello di un terreno meno interessante.

Allora ho pensato che se ci si fosse fermati alla distruzione della statuona di San Gaudenzo, sarebbe stato un male minore, che forse è nel patrimonio genetico dei miei concittadini sacrificare la storia e la cultura sull’altare dell’utile e che tutto sommato il riminese che più ha capito veramente cosa sia bello è stato un signore nato più di seicento anni fa, Sigismondo Pandolfo Malatesta.

Ed è proprio per questo che è stato il più grande e tutti lo ricordano.

Ariminum, gennaio febbraio 2023