Una vita tra “guerra e pace”
Combattè in Albania e in Russia e dopo l’8 settembre 1943 entrò nelle formazioni partigiane. Terminata la bufera si occupò della ricostruzione del Teatro V. Emanuele
Giuseppe Polazzi amava la musica.
Era nato a Rimini il 19 novembre 1912; studente ai Salesiani, dimostrò subito, oltre che notevoli capacità, un vivo interesse per la musica: in particolare si sentiva portato per il canto, tanto da partecipare con entusiasmo alle recite e agli spettacoli che la scuola organizzava.
Dopo aver frequentato il Liceo Classico, con grande determinazione decise che il suo futuro sarebbe stato a Milano, dove avrebbe potuto ricevere gli insegnamenti dei migliori maestri di canto dell’epoca, tra cui Luisa Tetrazzini, celebre soprano caduta in disgrazia a causa della sua audace vita sentimentale.
Fu un periodo felice che gli consentì anche di perfezionarsi in pianoforte, strumento per il quale mostrava una particolare predilezione; la musica divenne il suo grande ed eterno amore che non lo abbandonò per tutta la vita e che trasmise al figlio Gianandrea.
Nello stesso tempo, per assicurarsi comunque un futuro e una posizione sociale, frequentò la facoltà di giurisprudenza, laureandosi sempre a Milano; non disdegnava nemmeno l’attività sportiva e specialmente il pugilato, che praticava con passione ma come passatempo.
Era però giunto il momento di svolgere il servizio di leva, ed era anche il tempo di Marte: la vittoriosa guerra d’Africa, la guerra di Spagna, il fascino della divisa e la fiducia nel re lo convinsero a diventare ufficiale di complemento, potendo vantare un’istruzione universitaria: il 29 agosto 1939, due giorni prima della fatidica invasione della Polonia che diede inizio alla terribile guerra mondiale, Polazzi fu ammesso aspirante ufficiale di complemento nell’87° reggimento di fanteria della divisione “Friuli”.
Trascorse perciò l’intero conflitto sotto le armi: sottotenente, fu impiegato l’11 giugno 1940 nel 63° reggimento di fanteria, divisione “Cagliari”, in Francia, nell’Alta Savoia, dove rimase fino al gennaio 1941.
Data la laurea conseguita, gli fu proposto di far parte del Tribunale Militare di Guerra ma non accettò: lo nauseava il senso di ingiustizia che provava nel pensare di giudicare militari spesso colpevoli principalmente di protestare contro una guerra non amata.
Conseguenza del gran rifiuto fu il suo impiego in Albania per arrestare la controffensiva della Grecia nel conflitto intrapreso con sicumera da Mussolini e Ciano: fu destinato al fronte dell’Epiro, nella zona cioè dove fervevano i maggiori combattimenti. Purtroppo il 1° marzo 1941 fu colpito gravemente dalla deflagrazione di una bomba: l’esplosione gli procurò ferite in tutta la parte destra del corpo ma soprattutto la perforazione del timpano, menomazione che gli precludeva la possibilità di diventare cantante, sogno accarezzato fino ad allora.
Giuseppe Polazzi amava l’Italia
Ristabilitosi dalle ferite, Polazzi, promosso tenente, fu destinato all’A.R.M.I.R. la grande armata inviata a combattere i Russi, e precisamente al 2° Corpo d’Armata; quindi giunse in Unione Sovietica il 1 ottobre 1942. Fu coinvolto dall’offensiva russa denominata “Piccolo Saturno” ma riuscì, tra innumerevoli difficoltà ed episodi tragici, a evitare l’accerchiamento e ad arrivare nel marzo 1943 a Leopoli, gravemente ammalato. Trasportato all’ospedale militare di Miramare, venne dimesso nel giugno 1943; l’8 settembre lo colse in Piemonte dove riuscì a sfuggire alla cattura, questa volta da parte dei Tedeschi.
Deciso a continuare la sua lotta contro l’invasore, Polazzi entrò a far parte nelle formazioni partigiane S.A.P. di Forlì; ai primi di marzo 1944 il C.L.N. gli affidò la responsabilità militare dei gruppi presenti nel Riminese, insieme a Walter Ceccaroni e Celestino Giuliani; assunse dal 20 aprile 1944 la qualifica di “capitano”.
Polazzi non amava raccontare le proprie gesta, ma di un episodio cruciale serbava viva memoria: i primi giorni del giugno 1944, mentre si teneva una riunione clandestina vicino al Cimitero di Montalbo a San Marino, insieme a Decio Mercanti e ad altri partigiani venne catturato dalla polizia sammarinese e consegnato al federale fascista Paolo Tacchi, il quale portò i prigionieri al carcere di Forlì, in un viaggio drammatico per i pestaggi subiti.
La fucilazione fu fissata il 29 giugno; giunta l’ora, Polazzi si rifiutò di mettersi la benda ma fu costretto, per disprezzo, a scavarsi la fossa. Proprio in quel momento un provvidenziale bombardamento alleato provocò la fuga del plotone di esecuzione ed egli si salvò dapprima gettandosi nella stessa fossa e poi correndo verso un varco causato dalle bombe. Per la terza volta quindi Polazzi riuscì a sfuggire ai suoi nemici.
Per le sue attività militari e partigiane gli furono conferite due croci di guerra.
Giuseppe Polazzi amava Rimini
In contatto con gli Alleati, nei giorni successivi alla liberazione di Rimini egli rientrò finalmente nella sua città natale e vide con orrore le distruzioni operate dalla guerra e le disastrate condizioni del tempio della musica, il teatro Vittorio Emanuele.
Pur comprendendo le primarie necessità della popolazione, Polazzi voleva evitare il progressivo degrado del ribattezzato “Amintore Galli”, che vedeva depauperarsi del materiale laterizio; ritenne che si dovesse agire quanto prima per recuperare il prezioso gioiello del Poletti.
Con questo nuovo sogno, rotti gli indugi, ottenne l’assenso del sindaco Cesare Bianchini per inserire il teatro nel piano della ricostruzione della città. Insieme ad alcuni amici tra cui l’ing. Umberto Silvestrini, figlio del senatore Luigi, incaricò gli architetti Melchiorre Bega, Giuseppe Vaccaro e Alberto Legnani, gli ingegneri Carignani e Villa per la redazione del progetto e costituì appositamente una società, “R.G.T. (Ricostruzione e Gestioni Teatri, Cinema e Locali Pubblici di divertimento e ritrovo distrutti per eventi bellici) srl.
Dalla corrispondenza intrattenuta si evince che il progetto prevedeva un parziale ampliamento dell’edificio, probabilmente verso Piazza Malatesta secondo il piano regolatore (non approvato) “La Nuova Rimini” di La Padula, e la trasformazione di gran parte dei palchi in galleria: l’intervento avrebbe aumentato i posti da 900 a 2.000, rendendo quindi il teatro meno elitario rispetto alla costruzione originale.
Tale progetto, con le tavole a scala 1:200 e due raffigurazioni prospettiche della sala, fu presentato alla cittadinanza, con un preventivo di spesa di £. 180 milioni lievitati poi a £. 300 milioni circa, da finanziarsi prevalentemente con i fondi per i danni di guerra.
Purtroppo il Ministero dei Lavori Pubblici negò i contributi, motivando il rifiuto con la scarsità dei fondi a disposizione, da destinare prioritariamente alle abitazioni.
Con la sua tipica volontà di azione, Polazzi chiese al nuovo sindaco Walter Ceccaroni di proseguire ugualmente con l’adozione delle delibere necessarie, confidando anche in un nuova possibilità di contributi da parte del Ministero, ma Ceccaroni fu di altro parere: era prioritario investire le disponibilità in altre destinazioni ed anzi stornò i fondi “ad altre opere urgentissime dipendenti da danni di guerra”, come emerge da una lettera dell’Ufficio Tecnico del Comune del 7 giugno 1949.
Polazzi non rinunciò, trovò gli investitori e scrisse al Sindaco il 31 ottobre 1951: “i due complessi industriali che si obbligarono per iscritto a finanziare la ricostruzione del Teatro insieme a noi, sono la COFIMPRESE con sede centrale in Milano e la Cooperativa Muratori Cementisti di Ravenna.”
Purtroppo anche questa volta il Comune rigettò la proposta con l’anodina affermazione che “era sempre meno probabile la ricostruzione del Teatro”: di fatto lo condannava per 70 anni alla sua attuale condizione.
Polazzi morì il 9 marzo 1985 senza aver coronato il proprio sogno: ma quel fallimento era anche il fallimento stesso dell’intera città di Rimini.ù
Ariminum, gennaio febbraio 2015