La tormentata vita di un Piano «destinato a nascere morto»
Il progetto dell’architetto, fortemente ideologizzato, conteneva soluzioni talmente rivoluzionarie e spesso irrealizzabili che lo hanno condotto a una fine ingloriosa
L’utopia affascina. Questo indubitabile principio, tuttavia, deve essere declinato anche con il rovescio della stessa medaglia: l’utopia, essendo un non luogo, è irrealizzabile.
Il Piano del Nuovo Centro di Giancarlo De Carlo, formato in un periodo storico assolutamente singolare per la storia del mondo e cioè il 1968 (De Carlo nel saggio del 1969 Il pubblico della architettura, avrebbe definito la contestazione universitaria «l’avvenimento più importante dopo la fine della seconda guerra mondiale»), mitizzato ma poco noto nei contenuti, si basa su presupposti fortemente politici e sull’idea dell’immaginazione al potere: «Il nostro grande problema, preliminare ad ogni soluzione urbanistica, è dunque precisare il quadro ideologico al quale ci riferiremo, io, l’Amministrazione e in misura enormemente maggiore tutta la collettività che vive in questa città»1.
De Carlo, pur affermando di partire dal Piano Regolatore Generale del 1965 di Giuseppe Campos Venuti2, in realtà lo contesta alla radice, mettendolo in discussione fin dalle premesse: egli infatti rifiuta la zonizzazione insita in tale PRG, perché con la separazione delle funzioni si attua la segregazione dei cittadini.
Nell’analisi storica della città, piuttosto sommaria e miope a dir la verità, l’urbanista, senza dirlo espressamente, accusa i precedenti amministratori comunali – compreso lo stesso sindaco che lo ha scelto – tutti appartenenti alla stessa parte politica che ora lo sostiene: la ricostruzione postbellica è piena di contraddizioni e deve essere oggetto di contestazione critica.
In una conferenza dibattito organizzata dal Partito Comunista e dal PSIUP, De Carlo espone le sue convinzioni: «il problema fondamentale è la ristrutturazione ideologica del modo di pensare piccoloborghese per arrivare a capire che questo modo di collocarsi nel territorio è l’inganno più terribile provocato dalla sopraffazione capitalistica»3. Nel 1974 De Carlo ribadirà che «la proprietà sul suolo è da abolire, è un controsenso sociale, storico e politico»4. Questi postulati politici intimoriscono i circa 30.000 residenti, di cui la metà proprietari di case sospettosi di espropri e di soluzioni rivoluzionarie e non condivise. Vi sono quindi premesse ideologiche che suscitano forti opposizioni in quel mondo, soprattutto liberale e cristiano, dove certi concetti sono totalmente respinti.
La pretesa di superare le difficoltà attraverso la partecipazione rappresenta una chimera, sia perché in verità sono inizialmente interessati più i tecnici che i cittadini, sia perché di fatto il Piano viene confezionato dallo stesso De Carlo, novello demiurgo che interpreta il sentire delle classi popolari in base alle sue idee. Pur avendo dichiarato: «Io sono convinto che un Piano non debba avere segreti in nessuna delle sue fasi di sviluppo», la squadra di lavoro è composta solo da collaboratori di De Carlo escludendo tecnici comunali; l’Amministrazione rimane sostanzialmente all’oscuro dei contenuti fino alla metà del 19715. Le assemblee che si tengono sono sostanzialmente delle lezioni ex cathedra al termine delle quali si concede un dibattito che tuttavia non incide sul risultato finale, cioè la proposta che De Carlo e la sua squadra presenteranno alla città nel 1972.
La stessa supposta partecipazione delle masse viene poi smentita dalla presentazione di oltre 2300 osservazioni, dileggiate come strumentali ma in realtà, come ben capiscono gli amministratori comunali, motivate da un profondo rifiuto della cittadinanza al Piano stesso.
Infatti la presentazione al pubblico degli elaborati del Piano è un vero e proprio shock: la conferenza del febbraio 1972, abilmente condotta con planimetrie, plastici e filmati, mostra un intendimento davvero rivoluzionario con soluzioni radicali che spaventano una grande parte dei cittadini. Ciò che prima era intuibile ora si percepisce visivamente, con sgomento di molti. “Il Resto del Carlino” rende manifesto questo profondo disagio con una serie di interventi che illustrano le indubbie e inoppugnabili criticità del Piano, anche legali.
Le obiezioni sono di natura pratica ma anche ideologica, combattono quindi De Carlo su vari fronti, non soltanto sul piano degli interessi concreti ma anche su quello delle idee. E, a ben vedere, sono proprio queste a vincere, perché incrinano definitivamente la volontà dei sostenitori dei Piano, mettendone in dubbio la validità fin dai presupposti.
I punti di maggior frizione sono principalmente tre: la distruzione-ricostruzione dei borghi storici (Borgo San Giuliano, Borgo Mazzini e Borgo XX settembre ivi compreso lo stadio), minirail e i cosiddetti «condensatori».
Sulla pressochè totale distruzione dei borghi storici è già intervenuto su queste pagine Giovanni Rimondini6, con argomenti del tutto solidi e condivisibili. De Carlo ritiene, ad esempio, irrecuperabile Borgo San Giuliano perché non vi vede assolutamente alcun valore storico e artistico. Gran parte di esso deve essere demolita – in analogia con quanto intendeva il podestà fascista Pietro Palloni che, 40 anni prima, aveva iniziato l’opera – e successivamente avviata la ricostruzione, in alcuni casi autogestita7. Questa circostanza induce i critici a definire il piano “maoista”, frutto della rivoluzione culturale perché riecheggia le Comuni cinesi. Luigi Pasquini e Luciano Gorini, con molto più realismo e fondata preveggenza, chiedono il risanamento totale del borgo e non la distruzione, soluzione che la storia ha dimostrato essere la più felice.
Il minirail è un trenino elettrico, sopraelevato su travi a distanza di 20 metri una dall’altra all’altezza mediamente di 4,5 metri dal suolo; doveva correre lungo i bastioni, attorno alla città, con due diramazioni: una verso il mare lungo viale Principe Amedeo e l’altra per la via Flaminia fino al nuovo ospedale e poi verso il mare. Il percorso quindi segue le mura, passa accanto all’Arco d’Augusto e al Ponte di Augusto e Tiberio; è prevista una colossale stazione principale, non lontana dal Castel Sismondo, la quale è poi collegata con piazza Malatesta e il teatro mediante camminamenti anch’essi sopraelevati a fianco del castello stesso. Sostanzialmente tutti i principali monumenti della città sarebbero stati coinvolti da questa infrastruttura. I maggiori esponenti della cultura (Augusto Bacchiani, Pier Giorgio Pasini, Mario Zuffa, oltre ovviamente a Luigi Pasquini) insorsero per l’enorme e devastante impatto che il minirail avrebbe avuto sul paesaggio cittadino e sul tessuto storico cittadino.
I «condensatori» sono previsti per aree cittadine che devono essere totalmente ristrutturate, spesso con distruzione quasi totale dell’esistente e ricostruzione secondo caratteristiche molto restrittive: i principali sono situati alla Stazione ferroviaria, in Via Castelfidardo, all’Arco d’Augusto, in Piazza Malatesta e nella zona di Via Ducale. Al di là della prevedibile opposizione dei proprietari degli immobili da demolire, il concetto rivoluzionario sarebbe stato molto difficile da attuare se non con estesi espropri, con un costo ingentissimo8. De Carlo inoltre tende a mantenere fabbricati recenti più che stimolare la valorizzazione archeologica.
A dir la verità il Piano è malvisto anche da settori della maggioranza politica che non condividono gran parte delle soluzioni adottate: si sono accorti che, al contrario di quanto ipotizza De Carlo, le masse popolari sono ostili, anche in quel borgo San Giuliano roccaforte della sinistra.
Il sindaco Nicola Pagliarani, che aveva ereditato il Piano dal predecessore Walter Ceccaroni, capisce subito che le difficoltà di attuazione sarebbero state innumerevoli. Nondimeno impone la sua adozione da parte del Consiglio Comunale, nonostante la forte opposizione che si sta levando in città. In oltre venticinque anni di colloqui personali con Pagliarani ho affrontato anche questo tema: ricordo che mi disse che la politica è l’arte del possibile e quello era un Piano non possibile. Per l’ex sindaco, nella politica le idee sono una Stella Polare, direzione verso la quale mirare ma senza pretendere di raggiungerla. L’errore di De Carlo era quello di voler realizzare integralmente le sue idee, di aver concepito il Piano come la sua creatura perfetta, senza spiegare però come concretizzarlo: lasciò in pratica nelle mani dell’amministrazione questo compito e alle critiche che provenivano dal partito che lo sosteneva, l’urbanista rifiutò di rispondere o di adattare il Piano, rendendo quindi impossibile la sua attuazione.
Con la sua consueta fine ironia, Pagliarani nel 2009 confessò di sentirsi in colpa non di aver revocato ma di aver adottato il Piano «destinato a nascere morto»: e così pure si sarebbero dovuti sentire in colpa De Carlo e i consiglieri che erano favorevoli all’adozione9.
Visto il sempre maggiore appoggio alla revoca da parte del partito comunista, che peraltro teme una sconfitta alle elezioni del 1975 a causa della forte opposizione dei cittadini, il Piano viene lentamente condotto a una morte dolce mediante la proposizione di varianti, spesso affidate a tecnici collaboratori di De Carlo finché nell’aprile del 1975, su proposta del sindaco, all’unanimità il consiglio comunale delibera la revoca del Piano stesso.
Pagliarani può ora dedicarsi a realizzare opere più concrete, meno roboanti ma che più sente importanti per il futuro della città: l’edilizia popolare e soprattutto i parchi, che tuttora sono il polmone verde riminese: dopo il varo del Parco Cervi, nel maggio 1975 viene inaugurato il Parco Marecchia, tuttora grande lascito per la città.
Note
- F. Tomasetti, Cambiare Rimini, De Carlo e il Piano del Nuovo Centro (19651975), Maggioli, Santarcangelo, 2012, p.61.
- Già la scelta di De Carlo al posto di Campos Venuti da parte del sindaco Walter Ceccaroni era quanto meno singolare, segno sia del fascino per l’urbanista genovese sia di insoddisfazione del PRG del 1965. De Carlo era già famoso soprattutto per il Piano Regolatore di Urbino, che evidentemente piacque molto a Ceccaroni, ma divenne celebre soprattutto dal 1968 per il pamphlet dal titolo La piramide rovesciata, atto di accusa nei confronti del mondo accademico. Era quindi ben nota la sua ideologia al tempo della presentazione del Piano.
- Tomasetti, op.cit. p.87.
- “Il Resto del Carlino”, 29 marzo 1974.
- Tomasetti, op.cit. p.61 e p.121.
- G.Rimondini, La morte decretata del borgo San Giuliano in «Ariminum», novembre dicembre 2019.
- Le idee antistoriche di De Carlo emergono chiaramente nella Relazione generale del Piano: «La suggestione storica del Borgo esiste solo per chi non vi abita. Perciò il Borgo San Giuliano non può essere conservato e neppure risanato, deve essere semplicemente sostituito» (Tomasetti, op.cit. p.156). I cittadini avrebbero dovuto costruirsi da sé la casa, già predefinita da suoi modelli, con l’aiuto dei vicini, lavorando la domenica e nei giorni non occupati da altre attività.
- Un punto non chiarito è dove sarebbero vissuti i 30.000 abitanti delle zone da demolire e riedificare durante la ristrutturazione dei borghi e la costruzione dei condensatori.
- Tomasetti, op.cit. pp. 272-273; per la verità a distanza di circa 40 anni dai fatti Pagliarani sottolinea anche un ulteriore elemento di riflessione: l’inadeguatezza giuridica del Piano stesso che conteneva previsioni contrastanti con le norme vigenti, come peraltro osservato già all’epoca da Gianfilippo Delli Santi, docente di Legislazione Urbanistica dell’Università di Roma («Il Resto del Carlino», 16 ottobre 1972).
Ariminum, maggio giugno luglio 2022