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Dal diario del capitano Mallardi emerge che a Rimini la popolazione non vuole la guerra: «La gente non desidera altro che di vivere sotto un qualsiasi padrone, purché questi la lasci vivere in quiete»

Come fu accolto il “Proclama di Rimini” a Rimini?

Tre sono le principali fonti coeve, due ben note agli studiosi mentre la terza invece è apparsa solo recentemente: le prime sono redatte da riminesi che redigevano diari personali, e si tratta del “Diario di Rimino dal 1773 al 1826” del notaio Michelangelo Zanotti, e della “cronaca” del bottegaio Nicola Giangi; il documento meno noto è invece il diario di Giuseppe Mallardi, capitano dei lancieri di Murat, redatto dal 1807 al 1815.

Zanotti, reazionario conservatore, non cela le proprie simpatie per il Papa, criticando chi invece credeva illusoriamente nelle fallaci promesse dell’indipendenza dell’Italia; tuttavia riporta alcune notizie interessanti per gli storici nonché preziosi documenti, come manifesti e avvisi.

Il notaio racconta che il 28 marzo 1815, vedendo le truppe napoletane arrivare a Pesaro, i “tedeschi” si ritirarono da Rimini, chiudendo la Porta Romana e portandosi via le chiavi; i soldati avrebbero voluto distruggere l’Arco a cannonate, ma il generale Carascosa impiegò “gli zappatori”, cioè i genieri, per aprire la porta e il 29 marzo, alle 2, la truppa entrò a Rimini e saccheggiò i negozi, mentre gli ufficiali si introdussero a forza nelle abitazioni per alloggiare.

Alle 2 del pomeriggio giunse il re Gioacchino e prese alloggio presso la casa del Podestà Conte Battaglini, il quale venne conquistato dal re e la sera mise la città a festa illuminandola “per eccitato segnale della comune allegrezza per la presenza reale”.

Il giorno successivo Murat partì per Cesena con le truppe che avevano arrecato “infiniti danni”.

Il 31 a Rimini ”vennero affissi due proclami del re Giacchino diretti uno agli Italiani e l’altro ai soldati, che adducevano i motivi della nuova guerra coll’Austria infedele, dicea, ai trattati ed alle promesse che avea fatto al re Gioacchino. Si lusingano i popoli coi rinnovati speciosi titoli di libertà e di nazionale indipendenza”.

Zanotti ironizza sui riconoscimenti concessi da Murat, tra cui la croce di onore al Battaglini e “piccioli nastri rossi d’onore ai suoi fidi” riportando una quartina canzonatoria: “Ai tempi più lontani e più feroci / s’appicava i ladri su le Croci / ne tempi più felici e leggiadri / s’appiccano le Croci in petto ai Ladri”

Zanotti critica durante il proclama: “Colle nuove di libertà e di indipendenza preseguivasi ad agire nelle recenti innovazioni di governo e di guerra suscitata in questi lagrimevoli giovani con sì enorme danneggiamento della misera popolazione”.

Si pubblicò un avviso per il reclutamento dei giovani: “Impegnatissime le autorità in questo concorso di volontari posero in opra tutti i mezzi possibili per ben riuscirvi”. Tuttavia, nota compiaciuto Zanotti, i volontari non furono che “una trentina circa di giovani del nostro distretto”.

Giangi, più distaccato, rivela che ci furono altri esponenti delle classi più elevate che furono affascinati da Murat. Il Conte Ruffo ad esempio, insieme a Bartolomeo Bartolini, il 30 marzo presentò un “sonetto allusivo all’impresa che egli và a fare di liberare l’Italia dagli stranieri… Il re lo accettò molto gentilmente e se ne compiacque”. Giangi nota come il re avesse pagato tutto e i Riminesi facoltosi dormissero su materassi per terra per alloggiare i Napoletani, ma non accenna a saccheggi o a ruberie, al contrario invece di quando tornarono in ritirata alla fine di aprile. Il conte Girolamo Lettimi e Baldini si offrirono a comandare la Guardia urbana. Il Conte Battaglini incitò a dare spontanei regali al re Gioacchino

Giangi annota che mezzogiorno del 31 marzo furono pubblicati due proclami, sottoscritti dal re, ma non attribuisce loro una soverchia importanza.

Il capitano Mallardi, a Rimini proprio il 31 marzo 1815, riporta nel proprio diario il colloquio con un nobile riminese, probabilmente il Gambuti:

“Questa bella cittadina si trova messa su piccola pianura sulla sponda del nostro mare; nella bella piazza ho osservato una statua in bronzo di papa Paolo V. Abbenchè qui ci fossero state grandi masse di truppe, pur tuttavia abbiamo ricevuto ottimo vitto.

Tutte le truppe della 6° divisione sono partite fin da ieri con gli ultimi reparti, ed ora funziona una specie di guardia civica. Sulle cantonate delle vie vi sono affissi dei grandi foglie a stampa: è un gran proclama patriottico del re che lancia agli italiani, e leggendolo mi si sono inumiditi gli occhi per la gioia di sì alte e sante parole che il re rivolge a tutti i popoli della nostra grande e bella Italia.

Qui abbiamo ricevuti ottimi alloggi ed io sono stato ospitato nella nobile famiglia Gambutti, dalla quale ho appreso parecchie notizie che riassumo.

La sera del 29 venne abbattuta la porta di San Bartolomeo e le truppe del generale Carascosa invasero la città; circa un migliaio d’austriaci tosto scapparono per porta San Giuliano.

Le principali vie della città vennero in qualche modo illuminate dalla popolazione spontaneamente. La mattina del giorno 30 entrò tutta la rimanenza della prima divisione del generale Carascosa. Verso le 9.30 giunse il re circondato dal suo brillante Stato-maggiore, accolto festosamente dalla popolazione. Poco dopo venne affisso alle cantonate delle vie un gran proclama a stampa, come tuttora si trova, col quale faceva appello a tutti gli italiani di stringersi intorno a lui, per cacciare fuori lo straniero e rendere libera e grande la nostra bella Italia, come ai tempi dei nostri grandi padri romani.

“Capitano, mi ha chiesto il Sig. Gambutti, la vostra armata a quanto ascende?”

“A circa 40.000 uomini”, gli ho risposto.

Egli è rimasto meravigliato, abbenchè sia un ardente entusiasta del nostro re ed un nemico acerrimo dell’Austria e del governo papale. Egli, schiettamente parlando, mi ha detto aver dei dubbi sulla grandiosa riuscita dell’unificazione italiana per l’esiguo numero dei nostri soldati. Secondo le sue vedute, l’esercito napolitano ora occupa la più piccola parte del centro della penisola. Tutti i forti della Toscana, le fortezze della Lombardia, del Veneto, del Piemonte, del Genovesato, sono nelle mani degli austriaci o dei principi ad essi collegati, oltre la linea del Po, messa in assetto di guerra. Ora, secondo lui, per poter vincere questi grandi ostacoli, sarebbe stato necessario entrare in campagna con almeno 100.000 uomini e 100 bocche da fuoco. Io gli ho risposto che l’armata si sarebbe per via ingrossata dell’elemento borghese ed ex militari, secondo le promesse e le offerte fatte al re.

Alla qual cosa egli mi ha soggiunto: “Le popolazioni, capitano, non ne vogliono sapere di guerra; è quasi un ventennio che si è vissuti in queste condizioni di cose. Ora ognuno non desidera altro che di vivere sotto un qualsiasi padrone, purché li lasci vivere in quiete; questa è l’attuale mentalità delle popolazioni italiane. Meno però di pochi uffiziali ora in pensione, che desiderano acquistar grido dell’onore delle armi con la guerra, nonché la classe degli impiegati, che per ragioni del nuovo sistema cessarono in parte o in tutto dalle loro cariche opulenti che si erano create col governo napoleonico; questi sono i dissidenti del momento.

L’Austria attualmente in Italia ha circa 50.000 uomini tedeschi bene disciplinati ed agguerriti, le poche truppe dell’ex Regno d’Italia furono poco tempo dopo spedite in Austria, perchè non si era sicuri della loro fedeltà”.

Io gli ho domandato come aveva fatto per conoscere così bene queste cose, ed egli mi ha soggiunto che in casa di un suo fratello maggiore era stato ospitato fino a pochi giorni dietro il colonnello austriaco Gavenda qui di presidio, e da costui avevano apprese tante cose al riguardo.

Infine ha conchiuso con queste testuali parole: “La guerra intrapresa dal re Murat è giusta e santa, ma come si possono fidare gl’italiani della riuscita? Il re si fida dell’Inghilterra, governo leale e liberale, che applaudirà al suo operato. Se proprio lei fu la vera causa della distruzione dell’impero napoleonico, come mai potrebbe scindersi dai suoi collegati, ora che maggiormente bisogno ci è della loro compattezza? Non so capire come il re Gioacchino si sia deciso da solo a combattere l’Austria, sguarnendo il suo reame della sua armata, quando, da un momento all’altro, ad un solo cenno dell’Austria potrebbe piombare uno sbarco di anglo-siculi sulle spiagge del suo Stato, e con l’aiuto dei borboniani portare alla catastrofe il bel reame di Napoli.

Certamente il magnanimo re Murat è stato mal consigliato, forse dai più fidi consiglieri della sua corte, onde perderlo, facendo costoro indirettamente gli interessi dell’Austria”. (Parole savie e giuste!).”

Ariminum, maggio giugno 2015