Un mistero aleggia sulla travagliata storia della ricostruzione del teatro “Galli”: il progetto di ripristino degli architetti Melchiorre Bega, Alberto Legnani e Giuseppe Vaccaro.
Grazie alla tenacia dell’avvocato e musicologo Gianandrea Polazzi, si è conservata memoria del primo tentativo di riedificare il grande monumento polettiano dopo gli eventi bellici, ma poco di più.
Era il 1947 e gli amanti della Muse vedevano con orrore il progressivo decadimento dell’edificio, colpito sì da una bomba nel 1943 ma anche divenuto cava di laterizi per la ricostruzione di case devastate dalla guerra e utilizzato per varia scopi, con distrazione degli arredi e dei materiali in altri luoghi.
A titolo di esempio, esaminando gli atti presso l’Archivio di Stato di Rimini si evince che il 27 novembre 1945 la sezione “Mario Capelli” del Partito Comunista otteneva dalla giunta comunale, presieduta all’epoca da Arturo Clari 2 velari, 2 bussole e 2 pedane che furono sistemati nella scuola “Decio Raggi”; lo stesso organo autorizzò il 14/12/1945 la consegna alla cooperativa “Filippo Turati” di Viserba di un velario, della scenografia, delle quinte e del boccascena, mantenendo nella disponibilità dell’ente le poltroncine perché utilizzate per proprie necessità. Tutto il materiale veniva affidato con obbligo alla riconsegna, ma non è dato sapere se poi essa sia effettivamente avvenuta.
Il 10 aprile 1946 un inventario redatto dall’economato del Comune reperiva 17 leggii, 82 poltroncine quasi tutte da riparare, 6 poltroncine e due quadri in marmo in rottami.
Riguardo all’immobile, l’Ufficio tecnico il 24 marzo 1945 aveva predisposto anche un “Preventivo di spesa per il riattamento sommario del ridotto del Teatro Vittorio Emanuele e locali attigui” per una somma di £. 60 milioni, certamente superiore alle possibilità di un ente che doveva amministrare una città che aveva l’80% degli edifici distrutti o lesi.
I locali venivano dati in uso ad altri: vi è ad esempio una delibera del 13 marzo 1945 per la concessione degli spazi agibili al Partito Socialista per tutto il restante anno; l’11 novembre 1946 se ne permise l’uso all’U.D.I. per la Befana del bimbo povero”.
Tuttavia nel 1947, l’allora sindaco Cesare Bianchini era certamente interessato alla riutilizzazione del Teatro: già infatti il 1° marzo di quell’anno non dava seguito alla richiesta di una cooperativa di lavoratori dello spettacolo per la gestione di eventi all’interno del Teatro; il 14 maggio respingeva la domanda dell’ENAL, Ente Nazionale Assistenza Lavoratori, per l’organizzazione di una mensa nell’atrio del teatro in quanto “la Giunta Comunale ha stabilito di adibire il locale ad altra destinazione per conto del Comune”.
A questa decisione seguì quella fondamentale sul cambio di denominazione del teatro: l’8 maggio 1947 Aldo Cima, direttore del Civico Liceo Musicale Autorizzato “G.Lettimi”, indirizzò una richiesta al Sindaco per il cambio di denominazione del teatro a favore del Maestro Amintore Galli: nella lettera, oltre che la lode per il musicista, appare anche l’intenzione di evitare “la possibilità di vederlo intitolato ad altri di altro luogo”.
La Giunta comunale il 9 maggio, con celerità sospetta, acconsentì alla proposta; il Consiglio Comunale il 15 giugno, e quindi dopo più di un mese di riflessione, approvò il cambio di intitolazione all’unanimità ma con 14 assenti su 40.
Certamente vi era un’accelerazione nella realizzazione dell’idea di ricostruzione dell’intero teatro ma era necessario trovare l’ingente finanziamento indispensabile.
Si fece carico quindi dell’operazione l’avvocato Giuseppe Polazzi, vicino all’amministrazione comunale, il quale in effetti, nell’arco di pochi mesi, contattava le archistars dell’epoca gravitanti in particolare nell’ambito bolognese: Melchiorre Bega, Alberto Legnani e Giuseppe Vaccaro, aderenti durante il fascismo al MIAR, il Movimento italiano architettura razionale e già intervenuti a Rimini con il Piano di ricostruzione della Marina su iniziativa della Cassa di Risparmio.
I tecnici lavorarono intensamente nell’elaborazione del progetto di ricostruzione che, tenuto conto della loro formazione, delle loro teorie e del loro excursus professionale, non poteva certo essere il restauro filologico del teatro come previsto dal Poletti. Nè del resto all’epoca questa era l’ipotesi che prevaleva: nella mente dell’amministrazione comunale, e non solo,c’era infatti un cambiamento ideologico fondamentale, con l’abolizione del senso elitario della cultura, considerato come “borghese” e la diffusione egualitaria dello spettacolo.
Il progetto fu redatto nei primi mesi del 1948 e nell’estate esposto all’Arengo con la benedizione dell’amministrazione comunale: si trattava di una serie di tavole 1:200 e di due raffigurazioni di Sala.
Qui nasce il mistero: come doveva essere il nuovo teatro secondo i celebrati architetti Bega, Legnani e Vaccaro? Le ricerche eseguite presso gli archivi locali non hanno dato risultato, né è stata conservata documentazione dagli eredi dell’arch. Legnani, da me contattati.
Ho potuto però vedere due fotografie delle raffigurazioni di sala, attualmente in possesso di un privato. Lo stile era indubitabilmente razionalista, assai lontano da quello polettiano: per una maggiore versatilità si abbandonava il sistema dei palchi e si proponevano le più moderne gallerie con il conseguente aumento dei posti a disposizione del pubblico che passavano da 900 a 2000; era pure prevista la trasformazione del teatro in cinema – teatro, in omaggio all’aumentata domanda del pubblico per la proiezione di film.
La proposta dei tre architetti doveva aver ricevuto il consenso di Bianchini in quanto agli atti c’è una sua lettera indirizzata al Sindaco di Grosseto del 25 maggio 1948 al quale veniva spedito lo schema della convenzione per “la ricostruzione parziale, la sistemazione e la gestione del Teatro Comunale”.
Nello stesso tempo Bianchini il 28 maggio 1948 autorizzava la corresponsione di un compenso all’ing. Giuseppe Carignani di Milano, il quale aveva eseguito il progetto di massima e dell’impianto di illuminazione.
Il 4 ottobre 1948 l’avv. Polazzi costituiva una società per azioni, la “R.G.T. – Ricostruzione e Gestione Teatri, Cinema e Locali Pubblici di divertimento e ritrovo distrutti per eventi bellici”, i cui amministratori erano Luigi Giovanni Lotti, Umberto Silvestrini (figlio del sen. Luigi presidente della Cassa di Risparmio di Rimini), Adelio Testoni e lo stesso Giuseppe Polazzi; sindaci effettivi erano l’avv. Gino Beraudi, Battista Ronci, Armando Gobbi e supplenti il dott. Alessandro Joni e l’avv. Emilio Baronio. La compagine quindi faceva riferimento a vari i partiti, godeva del consenso anche dell’opposizione moderata e comprendeva imprenditori.
Con ogni probabilità il progetto era diventato una priorità anche per il Comune tanto che il sindaco Bianchini il 17 ottobre 1948 scrisse al Ministro ai Lavori Pubblici Tupini, in occasione di una sua prossima visita del 24 ottobre, che una società era disposta a sopportare il costo di 150-180 milioni per la “ricostruzione (parziale)” e chiedeva pertanto il contributo dello Stato.
Bianchini presentava il 27 ottobre 1948 la richiesta al Questore di ottenere la licenza per esercizio nel teatro di spettacoli teatrali e cinematografici; lo stesso il 6 novembre 1948 scriveva all’A.G.I.S. Associazione Generale Italiana dello Spettacolo” di Rimini l’intenzione di esercitare l’attività all’interno del “Cinema Teatro Comunale che sorgerà nell’immobile del Teatro Comunale ‘A.Galli’ già Vittorio Emanuele”: comunicava quindi che “data l’importanza del locale, sia per il decoro si come ricettività, il Comune dovrà opporsi al rilascio di nuove licenze ai privati”.
Sembrava quindi che l’operazione stesse compiendosi quando improvvisamente il sindaco l’8 novembre 1948 presentò le proprie dimissioni, immediatamente sostituito da Walter Ceccaroni.
Molto si è discusso sulle ragioni di tale atto e i più individuano nelle operazioni immobiliari intraprese e negli eccessivi interessi economici di Bianchini la causa dell’avvicendamento, tesi peraltro confidenzialmente confermatami da Nicola Pagliarani: il Partito Comunista non poteva accettare sospetti di vantaggi personali, peraltro mai accertati.
E’ molto probabile, vista la coincidenza temporale, che anche la questione della ricostruzione del Teatro contribuì alla caduta dello stesso Bianchini.
Contemporaneamente esprimevano dubbi sul progetto anche coloro che avevano già assistito con rammarico alla demolizione del Kursaal: di essi si fece portavoce Luigi Pasquini il quale scrisse il 22 dicembre 1948: “Le vaste pareti liscie [sic] e il soffitto a gradoni capovolti che codesto progetto contempla (gran brutto contemplare!) non si addicono alla magnificenza del ridotto, miracolosamente salvo e all’architettura esterno dell’edificio anch’esso quasi intatto. Qui chiamiamo a soccorso della nostra tesi l’amico nostro, il solerte Sovrintendente ai monumenti”.
Il Ministro dei Lavori Pubblici il 13 dicembre 1948 negava i fondi richiesti ma l’avv. Polazzi il 28 aprile 1949 affermava che la società R.G.T aveva già eseguito lavori importanti confidando sull’appoggio di Bianchini e assicurava che essa era disposta ad anticipare il costo della ricostruzione ipotizzato in circa £. 250 milioni.
Ceccaroni si oppose al progetto respingendo tutte le richieste, segno inequivocabile di un radicale cambiamento di rotta e indizio che la questione teatro fosse una delle causa delle forzate dimissioni del suo predecessore.
Il nuovo sindaco anzi fin dal 7 maggio 1949 stornò £. 20 milioni che il provveditore alle Opere Pubbliche aveva concesso per il teatro “ad altre opere urgentissime dipendenti da danni di guerra” che in gran parte poi erano lavori di sistemazione del piazzale ove sorgeva l’abbattuto Kursaal.
Amaro e beffardo paradosso: il teatro distrutto dalle bombe, lungi dall’essere ricostruito, finanziava la demolizione di un’opera non toccata dalla guerra.
Del progetto Bega, Legnani e Vaccaro si perse ogni traccia e persino quasi la memoria.