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Le riflessioni politiche del direttore della Gambalunga dal 1837 al 1840

Antonio Bianchi (incisione di Giuseppe Marcucci)

Una descrizione impietosa del governo pontificio di un alto esponente della cultura locale che pure aveva raccontato con sarcasmo i moti del 1831

Il 25 marzo del 1831 si combattè alle Celle una scaramuccia resa però celebre da Giuseppe Mazzini il quale, in esilio in Francia, scrisse su di essa poco dopo un componimento con velleità letterarie, Une nuit de Rimini en 1831; era, per sua stessa ammissione, il suo primo intervento politico ed ebbe risonanza internazionale.

Il fatto è comunque molto noto, ci sono vari resoconti tra cui quella dei riminesi Nicola e Filippo Giangi ma pochissimi citano la cronaca tenuta da un altro riminese, ben più colto e in una posizione di assoluto rilievo: Antonio Bianchi, nato a Savignano il 27 marzo 1784 e deceduto a Rimini l’11 novembre 1840, dal 1833 coadiutore del direttore della biblioteca «Gambalunga» Luigi Nardi e in seguito «direttore assoluto» dal 1837 al 1840.

Bianchi, predecessore e maestro di Luigi Tonini, fine studioso degli statuti comunali riminesi, nonchè donatore alla biblioteca stessa dell’Isotteo, era un grande esperto di numismatica e archeologia epigrafica: tra i suoi meriti c’è la scoperta dell’Aes grave, «anepigrafo della remotissima zecca riminese»i e la compilazione di una raccolta commentata di epigrafi molto apprezzata dagli studiosi tedeschi fra cui Eugen Borman. Curioso anche di fenomeni meteorologici e di aspetti scientifici, che inserisce soprattutto nella cronaca dei suoi tempi, la cultura del Bianchi appare non solo solida ma anche vasta, come appare anche dalla guida che pur terminata in manoscritto prima della sua morte, venne edita solo nel 1993 ma costituì la base della Guida del forestiere nella città di Rimini di Luigi Toniniii.

Tuttavia in questa sede quel che rileva è il manoscritto Inscript(ione)s Arimin(enses)iiidove Bianchi, fra l’altro, compilò un sunto di storia riminese in forma annalistica fino ai suoi tempi, rimasto purtroppo incompiuto; in esso pare particolarmente importante proprio la cronaca degli avvenimenti relativi ai moti del 1831.

Bianchi aggiunse poi proprie riflessioni assolutamente personali che gettano luce sul governo pontificio della città; esse furono lette da Tonini ma non pubblicate ed sono rimaste inedite e inutilizzate fino ad uno studio di Mario Zuffa nel 1959iv. Si tratta di una Nota di quattro pagine manoscritte le quali partono da un presupposto assai rivoluzionario rispetto alle idee di un funzionario dello Stato pontificio: i moti erano riprovevoli ma non meno riprovevole è il malgoverno papalino che li provoca.

Pur essendo di animo religioso e schivo, Bianchi esprimeva pensieri di chi avrebbe voluto uno Stato moderno ed efficiente: rivestono quindi una eccezionale importanza storica in quanto illustrano i motivi che portavano la popolazione a ribellarsi contro il governo, riflessioni espresse proprio da una personalità che era parte dello stesso ente. Bianchi non è un giacobino, non è un nostalgico napoleonico, non è un carbonaro: è soltanto un intellettuale che, alla luce del buon senso, esamina i mali che affliggono una teocrazia, mali a cui – egli vede con rammarico – non viene fornita alcuna soluzione. Disapprovò sarcasticamente i moti a cui assistette ma non per questo rinunciò ad una spietata critica di uno Stato ormai superato dai tempi: sembra, dirà giustamente Zuffa, «un preludio agli azegliani Fatti di Romagna» di 13, 14 anni dopo.

Il quadro è veramente desolante e si comprende perchè le menti migliori volessero una cambiamento totale e aderissero poi pressochè totalmente al Risorgimento.

i L. Tonini, Del riminese Alessandro Gambalunga e de’ suoi bibliotecari, in «Atti e mem. Dep. St. Patria Romagna», VIII (1869), p.33

ii Curiosa annotazione di Bianchi è la seguente: «Il 26 [febbraio 1831] alle ore dieci circa della sera si vide un fenomeno particolare per le circostanze de’ tempi. Essendovi un poco di nebbiume con aria da Ostro, la Luna aveva un piccol cerchio coi colori dell’iride, ben marcati però il rosso ed il verde, che uniti al bianco che formava il nebbiume di rimpetto al disco lunare, sembrava che anch’essa si fosse ornata de’ tanto famosi tre colori», Inscript(ione)s Arimin(enses), manoscritto presso la Biblioteca “Gambalunga” SC-MS 628, p.212. L’opera di Bianchi edita nel 1993 è Rimini prima dei bagni: una Guida della citta di Antonio Bianchi (c. 1838) illustrata dai fogli dell’Album di Severino Bonora (1837) / a cura di Piero Meldini e Giovanni Rimondini, Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini Carim, Rimini, 1993

iii M. Zuffa, Pensieri politici di un bibliotecario gambalunghiano: Antonio Bianchi (1784-1840), «Studi Romagnoli» 1959, p. 389 e segg. Zuffa peraltro afferma che nessun altro, a parte qualche cenno del Tonini, «pare si sia accorto dell’esistenza della cronaca».

iv Manoscritto presso la Biblioteca “Gambalunga” SC-MS 628, p.215, trascrizione di Zuffa

Il malgoverno papalino

Alcuni passi delle riflessioni di Bianchi sulle condizioni amministrative dello Stato della Chiesa a Riminii.

Nella pagine della cronaca relativa agli avvenimenti del 1831, già Bianchi aveva a margine riportato il seguente e significativo apologo: «Tiberio domandò a Batone per qual motivo mai non cessassero i Dalmati e Pannoni di ribellarsi ai Romani, rispose: Voi ne avete tutta la colpa, giacche mandate a custodir la greggia non cani o pastori, ma lupi» […]

Nelle Note scrisse: Tutti sanno che gl’inconvenienti maggiori del nostro Governo dipendono dalla natura o sia inpianto del medesimo, giacché il Sovrano essendo elettivo, e l’elezione cadendo quasi sempre sopra di un vecchio, questi non puoi avere nè tempio nè interesse da procurare un buon governo, vedendosi frequentemente che uno fa una legge e che un altro la disfa.

Non vi è unità di governo nemmeno sotto lo stesso Sovrano, perché tutti i rami di amministrazione devono essere presieduti da Cardinali e Prelati, siano capaci o no, succedendo spesso che un bravo teologo o moralista sia incaricato di presiedere alle finanze, e quel che è più bello anche al militare; da ciò ne viene che queste frazioni di governo in collisione le une colle altre, credendosi indipendenti, sono dirette dai segretari che fanno il tutto, adoprandosi sempre in favore di chi ha più oro da regalare […]. Una cosa ancora particolare è, che se il Tesoriere ruba, se il Governatore comette delle strapalate insoffribili, invece di farli impiccare, si devono premiare col capello Cardinalizio […].

Quando nel 1815 si ritornò sotto il Dominio Pontificio tutti speravano di dover star meglio. I partitanti del cessato governo stanchi degli inconvenienti che portava seco una continua guerra, essendosi dovuti sottomettere ad un conquistatore, non le riesciva più tanto odioso il dover ritornare sotto il governo di Roma, supponendo, che li governanti istruiti dalle vicende passate dovessero correggere gli antichi abusi. I partitanti poi del Governo Pontificio, che si lusingavano di dover essere governati patriarcalmente furono li più disgustati, e non potendo scusare in alcun modo il nuovo malgoverno dicono, che il medesimo è nelle mani de’ nemici dello stesso governo, ma se ciò fosse ne verebbe l’altra brutta conseguenza che il Papa e Cardinali tutti sarebbero tanti imbecilli da non conoscere tal cosa. La conclusione è che si è andato di male in peggio, avendo abolite le buone istituzioni amministrative del Regno d’Italia, in odium auctoris, accumulando poi le cattive di tutti i tempi […].

Per li tribunali civili puoi dirsi che non vi siano leggi, per esservene troppe, non potendosi sapere a quali attenersi, dovendo pescare non solo nelle antiche leggi Romane, ma in una faraggine di decisioni, di motuproprj, che citano altre leggi da pochi conosciute perché non mai riunite in corpo, molte delle quali ne distruggano delle altre, e per questo motivo specialmente le liti diventano interminabili, e molte volte le spese che si fanno ne’ tribunali superano il valore della cosa litigata.

Pe’ tribunali criminali si sta anche peggio, i ladri e gli assassini rimangono quasi sempre impuniti, specialmente i più birbi e furbi […]. Per gli omicidi commessi nelle persone di diversi cittadini e di varj impiegati del governo si procedè come se fossero inezie, ma per questo tentato Cardinalicidio [Bianchi si riferisce all’attentato al cardinal legato Rivarola a Ravenna del 23 luglio 1826] fu mandata da Roma una Commissione apposita che mise sottosopra tutte le Provincie, con molti arresti, perquisizioni ed esami infiniti. In Rimino si formò una combriccola di certi Martelli, Boni, Martinini, Lombardi, i quali calunniarono (allettati dal premio promesso) varj individui, che furono carcerati con grande apparato militare il 26 Ottobre […]. Dopo nove mesi circa di rigorosa prigionia, la Commissione si ridusse a liberarli dichiarandoli innocenti, ma ciò non potè ritornare in vita due di quegli infelici morti dai stenti e dalla passione. Per dare una qualche soddisfazione al pubblico per tanta ingiustizia commessa fu condannato a qualche anno di detenzione il meno colpevole de’ calunniatori. Per fine poi di tanti disturbi, furono impiccati in Ravenna alcuni individui, che avranno meritato simile castigo per altri delitti, ma non si potè venir in chiaro se fra questi vi fosse l’autore del suddetto attentato.

Il ramo militare va di pari passo con gli altri, e non puote andar diversamente, perché in uno Stato ove non si fanno reclute forzate, le truppe sono composte (non molti eccettuati) di discoli e persone che non sanno o non hanno volontà di far nulla; questo ramo tanto necessario pel governo è sempre stato trascurato e disprezzato; que’ militari che farebbero il loro dovere non si azardano molto di farlo, perché se s’incontrano a dover disgustare qualche persona attinente a Prelati o altri potenti, non sono protetti, ed anche sono castigati con qualche altra scusa che non manca mai alla prepotenza. L’Amministrazione delle Finanze che ben diretta forma il ben essere degli Stati trovasi nel massimo dilapidamento. Nel bel principio del ripristinato governo Pontificio si declamava a tutta possa contro il gran numero d’impiegati, di pensioni e giubilazioni, ma cosa si è fatto? si sono accresciuti sì gli uni che le altre per impiegare una turba di Romaneschi ignoranti e superbi, che inquietano ed aggravano più del dovere quelli che si presentano per fare il proprio dovere, specialmente nelle dogane, mettendosi poi d’accordo con quelli che fanno grossi contrabandi […].

Quello poi che più dispiace è il modo con cui viene insultato il suddito, giacche in ogni nuovo regolamento, che si faccia per nostra disgrazia, si comincia col nominare la Beneficenza Sovrana […]. Ci sovrasta un’altra Beneficenza Sovrana coll’attivazione del nuovo Censimento, avendoci fatto sapere che pagheremo la metà di quello che si paga ora per ogni scudo d’estimo; ma bisogna anche sapere, che dietro questa benefica disposizione pagheremo non solo quello che si paga presentemente, ma molto di più, essendo stati stimati i terreni non solamente il doppio di quello ch’erano, ma le tre e le quattro volte più, anche con metodo erroneo. Ognuno sperava che con la ripristinazione del governo Pontificio si procurasse di migliorare la morale, ma siamo rimasti totalmente delusi […]. Mi sono preso il pensiero di osservare i registri de’ fanciulli esposti in questo Spedale, ed ho veduto, che cessato il Regno d’Italia e gli altri governi provvisori nel 1815, esistevano alla fine del 1816, 262 esposti, e che crescendo progressivamente il numero, alla fine del cadente 1832 sorpassano il numero de’ 530. Questo accrescimento di dissolutezza sotto il governo ecclesiastico, non so se alcuno avesse osato di predirlo […].

Non vedendosi poi speranza di poter cambiare in meglio, bisognerà pregare l’infinita Misericordia Divina che non ci faccia soffrir di peggio, come dice la favola del Re delle rane; e dire col Muratori: «e quando mai mancheranno guai alla terra paese de’ vizi?».

i Manoscritto SC-MS 628 (cit.), pp.227-232, trascrizione di Mario Zuffa

Il papa Gregorio XVI, pontefice all’epoca delle riflessioni di Bianchi

Lo scontro del 25 marzo 1831 alle Celle secondo Antonio Bianchi

La cronaca del giornata estrapolata dagli avvenimenti dell’annoi:

Ricostruzione di fantasia della battaglia delle Celle

Il giorno 25 Marzo si erano ridotti in Rimino circa duemila persone, sul mezzo dì era stato dato l’ordine di ritirarsi alle ore due verso Pesaro, dicendosi che si sarebbero fortificati alle Gabiccie o al Pantalone, ove avrebbero potuto fare una regolare diffesa, e ritirarsi con tutto comodo in Ancona. Dietro questa disposizione che era tanto naturale, tutta la Città stava tranquilla; dopo poi (non si saprà mai il vero motivo) si dà un contrordine, ed i militi sen vanno chi a mangiare, chi a spasso, chi a dormire, lasciando i cannoni sulla piazza, come se il nemico fosse lungi ancora le mille miglia, eppure si sapeva ch’era lontano mezza marcia. Verso il tramontar del Sole arrivò un picchetto d’Ussari alle Celle, ove era una compagnia di soldati ex-Pontificj, ed una di Ravennati; l’Ufficiale che comandava quel posto fece riflettere ch’era prudenza il ritirarsi, giacche quello non era luogo atto a diffesa, ma alcuni de’ più fanatici Ravennati senza disciplina, e senza alcun ordine vollero far fuoco, e perciò s’impegnò la scaramuccia. Si gridò all’armi per la Città, molti accorsero disordinatamente fuori della porta ma non s’impegnarono nella mischia, molti più fuggirono verso Pesaro, e molti si nascosero in Città. De’ cannoni che erano sulla piazza ne fu condotto uno alla porta del borgo, e furono tirati inutilmente quattro colpi perchè puntato troppo alto. Gli Austriaci che si erano avanzati in numero, seguiti da altro grosso corpo che veniva di corsa, per aver sentite le cannonate, puntarono alle Celle due cannoni ed un obice; tirarono una quarantina di colpi, e fecero varie scariche di plutone; fortunatamente le palle d’obice non scoppiarono. Il foco durò circa un’ora, e fu molto in riguardo ai pochi italiani che vi si trovarono, le palle si sentivano a fischiare sulla Città. I sollevati così sorpresi ed abbandonati dal Generale (il quale sentiti i primi colpi essendo a tavola, montò a cavallo e fuggì di botto), si ritirarono dietro la chiesa della Colonnella ove si riordinarono un poco, e partirono dopo la mezza notte, facendo sorpresa l’aver salvato i cannoni in tanto tranbusto inaspettato. Ritiratisi gl’italiani, entrarono in Città gli Austriaci seguitando a far fuoco, specialmente sulle incrociature delle strade e verso le fenestre, furono feriti due o tre poveri che si trovarono per le strade, ed uno che imprudentemente stava sulla fenestra nel borgo di S. Gaudenzo, il quale poi morì. Sul campo, cioè sulla strada dalla Città alle Celle, rimasero morti dieci Italiani, soldati ex-Pontificj; e sei Ungaresi fra quali un Tenente. Nell’Ospedale furono portati diecinove Italiani feriti, e dieci Austriaci, uno de’ quali era un figlio del Principe Lichtenstein che fu messo nell’albergo della Posta, senza contare poi i feriti leggiermente. Gli Austriaci pernottarono sulle Piazze, ed un corpo si stabilì fuori di Città nel locale di S. Gaudenzo. Varie case ove s’introdussero de’ militari, o con scusa d’alloggio, o per aver trovata qualche porta debole, furono rubacchiate, e vi furono commesse brutte insolenze. Su questo fatto si lessero molte favole sui pubblici fogli; ma non fu assolutamente vero un maggior numero di morti, nè che i Cittadini vi prendessero parte, nè che fosse tirato dalle fenestre, e simili ciancie; è però vero che il Generale Austriaco pretendeva in quel momento d’incolpare il Gonfaloniere, come se dipendesse da inerme Magistrato il far sloggiare dalla Città migliaja d’armati, che non riconoscevano alcuna Autorità, specialmente poi Civile.

Del perchè succedesse tal fatto alle porte di Rimino furon dette diverse cose. Chi disse che fu il Generale Zucchi che ritardò la partenza per aver tempo di raccoglier danaro per fas et nefas: chi disse che avesse combinato con gli Austriaci di far fare prigionieri in Città i proprj seguaci, facendo sopravanzare la Città da un corpo Austriaco, che realmente tentò il passo del fiume, ma non trovando il luogo facile ritornò sulla strada ed incontratosi con l’avanposto inpegnò la fucilata. Se poi non fu tradimento, non si potrà creder altro che il Zucchi fosse divenuto imbecille, giacché un semplice caporale non avrebbe operato in quel modo. Che fosse poi capo di una banda di ladri è chiarissimo, giacché si vollero danari e generi per fortificare e provvedere Ancona, ma non si fece nè l’uno nè l’altro, che anzi le provvigioni che vi andavano dalle provincie, furono vendute per strada a vilissimi prezzi.

i Manoscritto SC-MS 628 (cit.), pp.213-214, trascrizione di Mario Zuffa.