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Mentre guardavo (ancora una volta) un famoso film di Fellini con riferimenti non tanto celati alla nostra città, come una visione, mi è apparso il regista che sbottava: «I provinciali credono nell’autorità e la cercano; desiderano una figura protettiva, il padre, la chiesa, il partito, il ministro. I provinciali non crescono mai, la loro ambizione è di restare infantili. Mi pare d’essere diventato un oggetto turistico e mi ribello».

Scomparsa questa visione di Fellini, mi si è presentata quella di Titta Benzi che mi sussurrava all’orecchio: «I riminesi sono gente strana, a Federico lo snobbano, perché sono persuasi che lui debba sempre parlare di Rimini, apertamente, come ne fosse dovere di ogni riminese parlare sempre della sua città, dovunque si trovi. Ed il paradosso è appunto questo, che Federico parla sempre di Rimini e loro magari non se ne
accorgono. Pensa che non vuole farsi vedere a Rimini. Ogni volta che viene a trovarmi se ne sta in disparte e vuole andare con me sul molo e sulla riva del mare. Sono quel molo e quella riva che si vedono in tutti i suoi film. Ma non vuole farsi vedere per il corso: ha paura che qualcuno creda che vuole farsi vedere per esibizionismo, teme anche che i riminesi possano avvicinarlo ed adularlo per motivi “turistici”. Non vuole essere nè diventare uno strumento turistico, un bene di consumo turistico. Sarebbe bello, poi, che questa sorte toccasse proprio a lui!».

Al magico dissolversi delle immagini dei due riminesi, ho pensato che questa provincia in fondo non riesce tutto sommato a capire pienamente Fellini nemmeno ora. Una domanda allora mi è sorta spontanea: come avrebbe preso il grande regista la fellinizzazione della città, con allestimenti e strutture di sapore kitsch?

Temo che il regista di Amarcord forse avrebbe confermato il suo pensiero che Rimini resta sempre un borgo come quando innalzava giganteschi ritratti di garofani.

Ariminum, novembre dicembre 2020